Francesca Ghirardelli, il venerdì 12/9/2014, 12 settembre 2014
L’ALTRA VITA DEI MIGRANTI SUL BARCONE
Non è ancora l’alba ma sulla pista di atterraggio due ragazzi sono già indaffarati ad accogliere chi è appena sbarcato nell’aeroporto della capitale. Sorridono e distribuiscono ai passeggeri rose e bigliettini con le date di un festival in programma a Sawa. Pochi passi in terra eritrea e già ci viene incontro (anche se con un fiore) questo nome che nessuno qui si può permettere di ignorare. Sawa è il campo militare da cui transitano tutti gli studenti per conseguire il loro diploma, anticamera forzata del «servizio nazionale» che uomini e donne svolgono come soldati, impiegati o professionisti, per pochissimi nafka al mese e a tempo indeterminato. In fila allo sportello per il controllo dei documenti, decine di eritrei espatriati arrivati per le vacanze tengono fra le mani passaporti canadesi, americani, italiani.
Domattina invaderanno la centralissima Harnet avenue, i caffè dell’elegante capitale, i vecrni hotel dell’epoca coloniale italiana o quelli più moderni coi vetri a specchio, se a casa dei parenti non c’è posto. Li chiamano beles, lo stesso termine usato per i fichi d’India, perché con valigie e valuta estera compaiono d’estate, quando maturano i frutti spinosi.
Le loro visite sono un eccezione, non la regola: solo chi può pagare il 2 per cento del reddito accumulato riesce a far dimenticare alle autorità in quale modo, più o meno legale, abbia lasciato il Paese. Per gli altri che vivono all’estero, meglio far perdere le proprie tracce (secondo alcune stime un eritreo su cinque vivrebbe altrove, i dati Unhcr per il 2013 registrano 338mila eritrei tra i rifugiati). Prima di metterei in viaggio per Asmara avevamo chiesto a un ragazzo dì nome Futsum, residente in Italia, con quali termini si porgano i saluti in tigrino: «Non esiste un saluto per chi se ne va: se parti, meglio farlo in silenzio, senza che nessuno lo sappia!» aveva risposto sarcastico.
Le fughe dal Paese sono parte integrante della vita e delle narrazioni familiari. Ci raccontano la vicenda di Senahit, 21 anni: la foto è appoggiata su uno scaffale in salotto, fra immagini di matrimoni e nuovi nati. È bella, lo sguardo serio, i capelli raccolti sulla nuca. «Non aveva il diploma, non aveva voluto andare a Sawa. Ha lavorato come parrucchiera per un po’, ha passato due anni in Sudan e Libia poi si è imbarcata per l’Italia». Il barcone su cui è salita si e inabissato nel marzo del 2012. Mentre nella loro abitazione, a un quarto d’ora dal centro, il cognato e la sorella di Senahit ci raccontano la sua storia, si unisce a noi la loro figlia sedicenne: questa sera la festa è per lei, partirà per Sawa fra due giorni. A differenza della zia dispersa in mare, ad attenderla c’è il campo militare.
«Si resta laggiù per un anno, si impara a sparare, si conoscono persone di tutte le etnie» racconta una ragazza che ha terminato il college e oggi svolge il national service lavorando al Ministero dell’Educazione: «Ricevo 770 nakfa al mese (12 euro, secondo il valore reale al mercato nero), ma non puoi farci niente con questi soldi!».
Lavorando quasi gratis, in molti cercano un secondo impiego, restano nascosti, sfuggono le retate. «Non c’è una regola certa per liberarsi dalla leva» ci racconta una persona che chiede (come tutti, in una sorta di mantra nazionale) di restare anonima. «Fino al 1998, allo scoppio dell’ultimo conflitto con l’Etiopia, il servizio aveva una durata di un anno e otto mesi. Oggi varia e c’è chi dal 2000 non è più stato congedato».
Il temuto Isaias Afewerki, eroe dell’indipendenza, diventato presidente ventuno anni fa senza che da allora si sia mai andati alle urne, motiva la leva universale tenendo sospesa sulla testa dell’Eritrea la spada di Damocle di una nuova guerra.
«È un paradosso, ma manca manodopera perché la gente se ne va o è impegnata nel national service» confessa il direttore di una fabbrica di scarpe, che produce a un terzo delle potenzialità per la logorante mancanza di elettricità. Negli stabilimenti ci sono soprattutto le donne, congedate dalla leva alla nascita dei figli: sono il 98 per cento dei 550 operai della fabbrica Zaer-Dolce Vita di proprietà del bergamasco Zambaiti, una delle rare aziende di grandi dimensioni. Oltre a qualche piccola fabbrica, si lavora in una miriade di negozietti o nei campi dello spettacolare altopiano.
Mentre i beles sorseggiano i caffè macchiati guardando i tg di Cnn, Bbc e Al Jazeera nei locali del centro (canali non censurati in un Paese che pure Reporter senza Frontiere colloca all’ultimo posto nella classifica 2014 della libertà di stampa), dai confini nazionali continua la «magmatica fuga» e il «drenaggio di energie umane», come i vescovi eritrei denunciano in una dura lettera pastorale. «Si attraversa il confine col Sudan rischiando la vita, un anno fa il viaggio costava 7mila dollari a bordo di Land Cruiser, dal cortile di casa alla frontiera. Si dice siano coinvolti i governativi, con un ruolo attivo» racconta uno che è bene informato. «L’aspetto assurdo è che, una volta fuori, all’ambasciata eritrea di Khartum puoi ottenere il passaporto. Fino a poco tempo fa, in caso di fuga, ai famigliari rimasti veniva imposta una multa 50mila nakfa: se i soldi non si trovavano, si finiva in carcere». Nella capitale girano voci di arresti tra le fila dei governativi: «Un generale, uomo forte del regime, sta ripulendo l’aria» ci dicono in ambiente diplomatico.
Chiediamo informazioni del naufragio dell’ottobre 2013 a Lampedusa; delle 366 vittime, infatti, molte erano eritree. «Almeno in quell’occasione il governo ha ammesso che si trattasse di connazionali, nei disastri precedenti abbiamo avuto solo bugie» torna a raccontare la persona bene informata. «Dopo il 3 ottobre la città si riempì di tende secondo la nostra tradizione, presidi funerari allestiti davanti casa di chi muore per i giorni di lutto».
Tra avvallamenti brulli e campi coltivati a orzo, percorriamo in fuoristrada chilometri di terra rossa puntando verso sud, fino al villaggio dove incontriamo la madre di Abraham, una delle vittime del 3 ottobre. La casupola è piccola, il pavimento di terra battuta: «Aveva 19 anni quando è partito, ha raggiunto l’Etiopia a piedi, non ci ha salutato, solo dopo due settimane ha telefonato». Dopo un periodo in un campo per rifugiati, è finito in un carcere nel Sinai. Tornato ad Addis Abeba ha tentato di nuovo la risalita, via Sudan: «Ci ha impiegato cinque anni. Per molto tempo non lo abbiamo più sentito, poi dalla Libia ha telefonato: "Non preoccupatevi, ho i soldi, pregate per me"». Un ragazzo che lo conosceva era sul barcone, è sopravvissuto restando a galla per quattro ore: è stato lui ad avvisare la famiglia della sorte toccata a Abraham.
All’uscio di lamiera si affaccia Mihret, 6 anni. È appena entrata in un programma di adozione a distanza che la sosterrà negli studi. Chi gestisce il progetto ci racconta che capita di dover comunicare ai donatori la sospensione dell’adozione per la fuga dei ragazzi assistiti. Mihret non capisce quello di cui parliamo: le si schiude un sorriso così sereno e luminoso che tutti i presenti si trovano, per un momento, lontani anni luce da funeste storie di naufragi.