Francesco Merlo, il venerdì 12/9/2014, 12 settembre 2014
L’UOMO CHE AMAVA LE DONNE
Quale delle paparazzatissime ministre di Renzi, gli chiedo, meriterebbe di entrare in questo suo catalogo di donne-simbolo? «Nessuna» mi risponde Camilleri che si sente «preso prigioniero» più da Montalbano, che «ormai mi nesci de naschi», che dalle tante donne che da sempre ispirano la sua musa e intanto lo accudiscono. «Moglie, tre figlie, e per tanto tempo, nell’appartamento comunicante, mia mamma e mia suocera che erano rimaste vedove, e con loro c’era Italia, la cameriera. Dunque, la mattina, prima arrivava il caffè di mia madre: grazie mamma’, poi quello di mia suocera che tua mamma non lo sa fare; e infine quello di Italia che era napoletana, e che ne sanno, loro, de! caffè!».
Camilleri compie 89 anni il 16 settembre, martedì prossimo, ed è in buona salute «anche se mi sorveglio» dice, lanciando per aria boccate di fumo e risale di cordialissima gioia. Non si sorveglia infatti con i penitenziali purè di verdura e i brodini di pollo con cui in genere si nutrono i pochi che raggiungono la sua età. «No, voglio dire che, per esempio, non mi scolo più una bottiglia di whisky ogni mattina, ma mi limito alla birra delle 11; e mangio tutto, ma senza eccedere. E se proprio ho ancora fame, faccio mangiare Montalbano». E gli fa anche bere, al suo posto, «tre caffè di fila, non a letto, ma guardando il mare». Le donne preparano un caffè speciale? «Forse con il caffè se la cavano meglio perché hanno più esperienza». Ma temo che non sia vero che si può vivere seguiti e accarezzati da così tanti occhi di donne senza restarne prigionieri. «È il mio destino. Anche adesso, tra nipoti e pronipoti, c’è un solo maschio» dice scambiando cenni ed occhiate alla sua assistente, Valentina Alferi, un’affascinante e giovane signora che «da dodici anni mi impedisce di perdermi». Anche Matteo Renzi, gli dico, governa in mezzo alle donne: «Sì, ma non è per questo che promette di più di quello che mantiene».
Eppure Camilleri ci offre solo le donne della sua adolescenza «perché sono prescritte» spiega, e vuoi dire che non sono più reato, che non sono più peccato. Ed è delicato questo libro di racconti che a sorpresa «non è brancatiano». Anzi, qui il sesso è «smarrimento e solitudine» del maschio, «ma sempre consapevolezza della donna». Oriana, per esempio, è la puttana antifascista che uccide di sesso i federali perché «lo usa come il pugno di Camera: uno o due cazzotti li puoi anche reggere, ma cinque ti ammazzano». E poi c’è Beatrice, che fu «il vizio solitario di Dante», la donna mia del maschio onanista, un eros astratto e intellettuale che «cambiò il modo di fare poesia», mentre lui, Camilleri dico, ha amato Beatrice «furiosamente per due ore», ma «senza neppure una parola». E un momento prima che la donna d’altri si sposasse. «Con Filippo».
Gli riferisco che Umberto Veronesi mi ha detto che «invecchiare è bellissimo e non è vero che i vecchi non sono creativi. Il mio coetaneo Camilleri, per esempio, inventa le meravigliose storie di Montalbano». Camilleri domanda malizioso: «È mio coetaneo?». E aggiunge: «Mi piace quel che dice Veronesi, ma non è vero. Per esempio si assottiglia il vocabolario come si assottigliano le ossa». E «non ricordo più i nomi, io che ho sempre ricordato tutto. E poi, io non so se sono creativo, ma di sicuro non ho fantasia». Prego? «Sì. È venuto a trovarmi il figlio di Simenon, incuriosito perché anche suo padre, non in pubblico, ma in privato, diceva di non avere fantasia. Il fatto è che io, come lui, parto sempre da un fatto di cronaca, da una cosa che ho letto. E da lì sviluppo, aggiungo, costruisco».
Anche certi giornalisti lo fanno e qualche volta, quando qualcuno se ne accorge, vengono espulsi dall’Ordine o licenziati dai direttori. E se invece nessuno se ne accorge, vengono premiati. La sente davvero la somiglianza con Simenon? Lui diceva di avere avuto diecimila donne. «Io non parlo delle donne che non sono cadute in prescrizione». Per paura delle reazioni? «Per paura di offendere me stesso e la verità». Sua moglie per esempio non c’è nel suo catalogo. «No, non c’è. È un mio pudore. Non è facile raccontare 58 anni di matrimonio. Pensi che ad un compleanno mia moglie mi ha regalato una nuova traduzione di Ritratto dell’artista da cucciolo di Dylan Thomas. Ebbene, le feci vedere che cinquant’anni prima mi aveva regalato lo stesso libro. Ecco, io ci trovo una coerenza, un filo rosso nella nostra storia, ma...». Il significato potrebbe essere equivocato? «Facilmente immiserito». Litigate? «Abbiamo formazioni diverse. Lei è milanese e io siciliano. Io le do da leggere i miei romanzi e aspetto la sua reazione perché so che è sempre impietosa. Dapprima mi arrabbio. Poi riscrivo quelle pagine». Simenon invece con le mogli pasticciava. «Ma il commissario Maigret ne aveva una sola. Faticammo molto a convincerlo ad accettare Andreina Pagnani nel ruolo televisivo della signora Maigret. Non voleva. Elle est trop belle diceva. E così l’abbiamo imbrunita in sala trucco. Ma con Simenon ho sopratutto in comune la certezza che di me non resterà niente». Beh, lui è ancora (di nuovo?) l’autore più venduto.
Camilleri ci ha messo cinque anni a scrivere questo libro sulle donne: «Avevo fatto un contratto aperto con la Rcs e dunque ogni tanto aggiungevo un nome, seguivo un ricordo, elaboravo una suggestione». E però non ci sono concessioni alla moda detestabile del maschio femminista e neppure i compiacimenti generazionali perla malafemmina, che fu l’avanguardia di tutte le sovversioni nelle quali l’ometto che c’è in ogni italiano sognava di perdersi, l’amore vigliacco ma onesto di Ruzzati, le eroine di De André, il bal tabarin e la Doran Gray di Totò, la vipera gentile, la maggiorata che fumava mille sigarette mentre Fred faceva il grano col tressette. E neppure le veline senza sapore, la maledetta di Baudelaire, la misteriosa Zobeida di Vittorini, la gigantessa di Fellini. In Donne di Camilleri, mentre gli uomini non riescono a decidere se amarsi come nemici o odiarsi come fratelli, c’è invece il due corpi e un’anima della sorella brutta, Lulla, e della sorella bella, Mirella, che sembrano immaginate da Salinger, con la sorella bella che chiede, e dolcemente impone, a uno dei suoi tanti spasimanti di accoppiarsi con la sorella brutta che di lui ha fatto richiesta. E dunque «lei si distese sulle ginocchia a pancia sotto: contami le papuluzze disse. Che sono? fece Gianni che non aveva mai sentito quella parola. Queste rispose indicandogli le lentiggini». E perciò «fu violentato e seviziato a lungo». Ma poi la sorella bella gli disse: «Domani puoi tranquillamente tornare da me».
Camilleri si compiace dell’idea di avere aggiunto il decimo ai famosi Nove racconti di Salinger, ma nel suo cervello, come da un archivio di paese, risalgono senza malizia anche i cognomi e dunque adesso i suoi occhi ridono più di nostalgia che di ironia, si gonfiano d’affetto più che di sarcasmo:
«Quella è una storia vera». E ricomincia a raccontare perché il racconto è la sua natura: «La devo a una donna, la nonna Elvira, perché lei di un grillo faceva un romanzo. A lei devo anche la serenità davanti agli anni che passano». Dunque, se ora fosse solo, Camilleri ricomincerebbe a scrivere davanti a quel computer che le sue figlie gli hanno regalato perché ingrandisce le parole:
«Scrivo di più anche perché riesco a leggere di meno». In fondo la sola cosa che veramente lo affligge è un glaucoma «rallentato dai farmaci, ma inesorabile». Paure? «Nessuna. Anche se mi faccio delle domande».
D’altronde come potrebbe non star bene Camilleri quando Montalbano è in pieno fiore? «Adesso lo hanno tradotto anche i cinesi che però non hanno voluto comprare lo sceneggiato perché, hanno detto, è un funzionario disobbediente. Ma io non posso certo permettermi di cinesizzare Montalbano. Un signore mi ha scritto: Si ricordi che Montalbano non le appartiene. E un altro, che è di destra: Non si arrischi a passargli le sue idee di sinistra. Al contrario un comunista di Udine mi ha raccontato di un suo compagno che ha voluto con sé nella tomba un ritratto di Che Guevara e l’ultimo libro di Montalbano». A Porto Empedocle c’è un monumento a Montalbano, un altro l’hanno inaugurato a Santa Croce Camerina. Camilleri ammette che il caso è strano perché non ci sono monumenti a Madame Bovary. «Ma a Pinocchio sì. E Montalbano è un Pinocchio in sedicesima». In tv sono arrivati alla quarta replica: «Significa che c’è gente che lo vede e poi lo rivede. Non li capisco, io che vivo ricattato da Montalbano».
Ho chiesto ad Antonio Sellerio come mai nel Paese dove le sentenze non sono mai definitive tutti scrivono gialli infallibili. E lui mi ha risposto: «Forse per reazione: Patto mancato diventa letteratura». Montalbano è 1’atto mancato dell’Italia? «Sì. È il solo investigatore che in Italia prende i veri colpevoli». Persino nelle carte postume del capo della polizia, il compianto Manganelli, il poliziotto buono, non trovarono la soluzione di uno dei tanti misteri d’Italia, ma un romanzo giallo. Potenza dell’atto mancato: ad altri hanno messo in mano il Crocifìsso. Successe pure a Sciascia. Mi raccontò la figlia che fu la madre a metterglielo in mano. «Sì, ma bisogna vedere che cosa si erano detti prima. Mio padre, nel suo letto di ospedale, si fece il segno della croce, ma aiutato dalle mie mani». Lei non è credente. «No. Mai stato. Invidio chi crede». E sua moglie crede? «No». Siete una famiglia tutta di sinistra? «Sì. E non abbiamo cambiato stile di vita. I soldi che ci ha portato Montalbano sono arrivati tardi. Ma non hanno modificato nulla del nostro modo di vivere. Anche se io volessi, mia moglie non accetterebbe un gioiello, un abito di gala...». E questo è di sinistra? «Sì. Se perdiamo tutto non perdiamo nulla. La sola cosa a cui teniamo sono gli affetti». E quelli, con l’età, crescono? «Crescono e aiutano: qualunque cosa, anche il glaucoma, resiste male alla felicità. Il resto...». Il resto? «Al resto bisogna arrivare preparati e io mi sono preparato e mi sto preparando. Per esempio non capisco i miei coetanei che cadono in depressione perché la potenza sessuale non li assiste più». La potenza cala e il desiderio cresce? «Se non sei preparato il desiderio può diventare ossessione». Ci sono scrittori che delle pene della vecchiaia hanno fatto un’epica, penso ai giapponesi. «No, io no. Ma sono consapevole. Per questo mi è dispiaciuto quando Napolitano ha accettato di farsi rieleggere capo dello Stato. Anche lui è mio coetaneo: ho temuto che l’età potesse portarlo a fare delle sciocchezze». Le ha fatte? «No, sinora non ne ha fatte. E spero che il Signore lo aiuti a continuare così». E mi racconta la morte della nonna che era venuta a Roma per partecipare a un’udienza ristretta di Papa Giovanni e «volle vedere la villa di Adriano a Tivoli, quella dell’animula vagula blandula, e lì, mentre passeggiava con mia madre e con mia moglie, cercò un sostegno, poi disse questa bellezza è insopportabile e morì».
Le donne hanno un modo speciale di morire? «Considero le donne esattamente come gli uomini. Se dipendesse da me abolirei, insieme alla retorica, anche quote rosa, la festa dell’8 marzo e tutto quello che sottolinea la diversità». E però Camilleri crede, con Sciascia, che «in Sicilia, almeno in passato, vigeva il cripto-matriarcato». E di nuovo ricorre ai nonni: «Vincenzo, che faceva l’industriale, un industriale di tutto rispetto, la sera in camera da letto alla nonna raccontava quel che doveva fare l’indomani. E l’indomani puntualmente taceva, di testa sua, quel che lei gli aveva consigliato». Sicuro, gli chiedo, che avvenga solo in Sicilia? Non crede che gli uomini italiani, raggiunta una certa età, si consegnino completamente alla propria moglie? «Sì, è probabile che non sia una specialità siciliana». Forse accade quando l’uomo esce dal mercato del sesso, e mi scuso per la brutta espressione. «Non si esce mai dal mercato del sesso. Ma sicuramente ci vuole un’età». Per esempio, forse, se Carlo Azeglio Ciampi è stato un grande presidente lo dobbiamo un po’ alla moglie che controllava tutto, e gli metteva addosso, con il cappotto, il dolce peso della sua protezione. «È vero» si accende. E finalmente capisco perché Camìllerì spesso dice «io scrivo sempre». Lo capisco perché vedo il racconto che gli arriva come un’urgenza che lo ingolfa: «Devo raccontarle il dialogo metafisico tra me e la signora Ciampi. Una volta mi convocarono a Porto Empedocle perché Ciampi voleva insignirmi mi di un’onorificenza, ma quel giorno Porto Empedocle era così fredda che sembrava un fiordo norvegese. Ovviamente non potevo presentarmi tutto imbacuccato al presidente. Ero, insomma, senza cappotto, senza cappello e senza sciarpa. Ma all’uscita mi fermò il vescovo che mi disse: Signor Camilleri, noi vescovi vorremmo proporla al capo dello Stato per la carica di senatore a vita. Rimasi lì, al ghiaccio, per venti muniti a convincerlo di non portare avanti quel progetto. Mi sbracciavo, mi arrabbiavo, lo pregavo. E intano morivo di freddo».
Non so quanti minuti siano trascorsi da quando Camilleri mi aveva preannunziato il suo dialogo con Franca Ciampi. Ma con lo sguardo luminoso, questo placido signore indulgente, scrive anche quando parla. E non ricorda, compone. Insomma, sempre tiene le briglie sul collo del discorso e qua e là trapela persino la punteggiatura: «Avevo preso tanto di quel freddo che cominciai a perdere sangue dal naso e finii in ospedale. Ma dovevo andare a Racalmuto per l’inaugurazione, sempre con il presidente, del teatro che allora dirigevo per amore di Sciascia. Il medico mi diede delle pasticche sottolinguali e mi assicurò che sarebbe rimasto davanti alla porta per intervenire se mi fossi di nuovo sentito male: avevo la pressione a duecento...».
Avevo ormai dimenticato la signora Ciampi e seguivo Camilleri che entrava con il medico nel teatro di Racalmuto, e anzi mi pareva quasi di vederlo avanzare così come lo vedo ora nel chiuso della sua stanzetta, vestito più di decoro e di distinzione che di eleganza. «Chi mi viene incontro?». La signora Ciampi! Ma lei viene vestito così? Pensa di essere abbastanza coperto? mi rimprovera. E io, che mi sentivo in colpa verso me stesso: ma non posso certo presentarmi tutto imbacuccato davanti al presidente? E lei: mi auguro che abbia messo almeno la maglia di lana. E io con le dita quasi sbottono la camicia: st, l’ho messa. E lei, con due dita quasi sbottonando la sua: è come la mia, spero. E io: signora non saprei dire com’e la sua». Era materna? «Era muliebre».
Forse, gli dico, quei monumenti a Montalbano li erigono in attesa di fare il monumento a lei. «No, no. È lui che vogliono». Ma quelli di www.vigata.org, che è un sito che lei ha approvato, la proclamano eroe santo e navigatore, pronti a ritrarla nel marmo e nel bronzo, la chiamano il maestro e addirittura il sommo. «E mi piace perché – lo ammetta – è una bella presa in giro». Anche la Rai le ha fatto il monumento in prima serata: II Maestro senza regole. In molti ora si aspettano l’autobiografia. La sta scrivendo? «No, e non la scriverò. Sarebbe un atto di estrema superbia. E non ho neppure carte segrete. Distruggo le variazioni. Non si potranno fare tesi di laurea sulle diverse versioni di questo o di quel romanzo».
Alessandro Manzoni vecchio ottantottenne bruciava nel fuoco del suo famoso camino lettere e testimonianze di una vita... Camilleri mi interrompe, con forza, non imbronciato ma solenne: «La vita e io ci amiamo molto. Ci siamo dati sempre tutto senza risparmio e io sono un uomo fortunato, e non certo perché i medici dicono che chi ha fumato tanto come me, già da tempo dovrebbe non esserci più. Mi diverto persino a fare progetti su Montalbano dai novanta in poi. Ma io so bene quello che valgo e quello che non valgo. Ho troppe letture alle spalle. Ecco, so che quel professore... come si chiama?». Quale? «Quello che ha preso la cattedra di Asor Rosa». Giulio Ferroni? «Sì. Dice che di me, tra una decina di anni, non resterà nulla. Ecco, può sembrare una risposta stizzita e invece è molto serena: io me ne fotto, mi creda. Non sono speciale».
Alla specialità della Sicilia però ci crede. «No, non mi piace la sicilitudine, credo nello spirito siciliano, preferisco la parola sicilianità». E arriva sino a giustificare lo statuto speciale? «La sinistra lo volle perché chiudeva la vicenda drammatica del separatismo. Ma ha servito solo pessimi interessi politici ed economici e non faccio distinzioni di partito...». Già, la casta con le sarde: la Sicilia va liberata dallo Statuto speciale? «Si. Va liberata».
Francesco Merlo