Paolo Russo, la Repubblica 12/9/2014, 12 settembre 2014
KENTRIDGE “L’ARTE NASCE DAI FALLIMENTI”
[Intervista] –
FIRENZE
Il Pince- nez nero contorna lieve lo sguardo acuto di William Kentridge. Ne sottolinea la natura di splendido anacronista che ha saputo conquistare le vette dell’arte con la vocazione di artigiano umanista, il magico, arcaico talento di rabdomante, di felice e inquieto vagabondo fra i tanti medium che ha fuso insieme (disegno, cinema, opera, teatro, scultura, arazzi, marionette), guidato da una visione alchemica, genialmente ambigua.
Esposto da vent’anni nei maggiori musei del mondo, il 59enne maestro sudafricano, che nel suo paese ancora vive il più possibile, sta attraversando una fase molto intensa del suo antico rapporto con l’Italia. Ieri, al Bargello, per il festival “Firenze Contemporanea”, ha portato in scena in prima mondiale il ciné-concert Paper Music. Nel cortile del museo ora c’è la sua videoinstallazione Breathe, Dissolve, Return. Mentre il suo Voyage dans la lune – Frammenti di Méliès, già nella collezione di Rivoli, verrà riallestito in ottobre, Kentridge tornerà ancora a Firenze come regista teatrale alla Pergola dal 20 al 22 novembre. A Roma, intanto, è fermo il suo progetto di murales sul Lungotevere.
Lei è figlio di due avvocati noti per aver sempre difeso i diritti degli emarginati in Sudafrica: quanto ha contato questa eredità nel suo impegno di artista?
«Sin dall’infanzia a Johannesburg ho capito che il mondo descritto dalla mia scuola era innaturale. Mio madre e mia madre mi hanno insegnato a guardare la realtà politica in modo diverso. Per fortuna in questi anni il paese si è fatto molto più africano. Le migrazioni dal Nord Africa, da quella centrale e francofona e dal Congo hanno portato un flusso di persone e identità che ha cambiato positivamente le nostre città. Questa integrazione di culture molto africane e molto europee è ben presente nelle composizioni di Paper Music».
Cosa hanno fatto gli intellettuali come lei da oppositori dell’apartheid?
«Sono state fatte scelte molto diverse: Nadine Gordimer è sempre stata una vera militante underground, che ha svolto un lavoro profondamente politico con grandi rischi personali. Coetzee, invece, non è mai stato politicamente attivo. Ma è un ottimo scrittore: questa è stata la sua maniera di partecipare. Fra i due mi sento più vicino a lui, non sarei stato un buon militante. Di una cosa sono certo: qualsiasi bianco sudafricano, attivista o artista, avrebbe dovuto fare di più e prima, pensando alla terribile condizione in cui troppi altri sudafricani neri hanno passato le loro vite».
Crede che l’arte possa favorire un mondo migliore?
«No, penso che l’arte possa cambiare gli individui. Il modo in cui siamo ha molto a che vedere con i libri, i film, le opere, le musiche che ci attraversano e sedimentano in noi, facendoci come siamo e saremo. Il ruolo rivoluzionario dell’artista è di essere un bravo artista, di rivelare il mondo nel modo più consapevole possibile. Io ci provo facendomi guidare dalle storie che racconto».
Fondendo le sue tante esperienze, ha dato nuova coerenza ai mixed media, all’integrazione tra linguaggi artistici...
«È successo per sbaglio, è il riscatto dei miei fallimenti di attore e di disegnatore. Ho iniziato coi disegni, poi ho tentato di farne dei film, cercando di infilarci una marionetta, ma veniva fuori un pezzo di teatro, e comunque dovevo fare anche lo scultore per avere la marionetta, finché d’un tratto tutto è sgorgato con la sua forma. Il solo vero talento che mi riconosco è saper scegliere buoni collaboratori: è la chiave di tutto».
Le cancellature sono la pietra d’angolo delle sue animazioni: lei non cambia mai foglio per il frame e cancella ogni volta quello già usato. Così costruisce il racconto, maneggiando tempo e memoria, creando il senso attraverso il vuoto...
«Un altro processo che ha scoperto me. Facevo disegni a carboncino per i film e poi li cancellavo, nei primi tentativi restava però traccia della cancellatura e pensavo di avere fallito. Ma le persone dello studio mi hanno detto “non dispiacerti, il risultato è ottimo”. È stata la conseguenza di una scoperta, non una buona idea, cosa alla quale non credo perché la ricerca per me avviene solo nel capriccio, nel contingente, nell’incertezza che sta fra l’attuazione di un programma e l’affidarsi alla pura fortuna».
Le cancellature sono anche al centro di Triumphs and laments, il suo lavoro atteso per la primavera 2015 in corso sulle banchine del Tevere che racconta la storia di Roma...
«L’idea è di cancellare lo strato di inquinamento, la patina del tempo per estrarre da quel vuoto il racconto di Roma in un disegno lungo 500 metri e alto 30 con circa 60-90 personaggi. Ma siamo fermi in attesa dei permessi che non arrivano e dei soldi che non bastano. E, per arrivare in fondo, uno solo dei due non è sufficiente».
Cosa può dire della sua nuova opera Paper Music, che replicherà alla Carnegie Hall di New York?
«È un ciné-concert con dieci corti a carboncino – la mia tecnica principe – e le musiche composte da Philip Miller per un lavoro dal vivo che ricorda gli entr’acte del cinema muto. Insieme alle voci di Ann Masina e Joanna Dudley, e al pianoforte di Vincenzo Pasquariello, sono in scena anch’io con testi sull’arte dalle Norton Lectures che ho tenuto ad Harvard. A novembre porterò alla Pergola di Firenze Ubu and The Truth Commission della mia connazionale Jane Taylor, che, fondendo l’assurdo dell’ Ubu di Jarry e testimonianze del dopo apartheid, ne ricostruisce violenza e terrore in un testo che feci debuttare come regista nel 1997 a Johannesburg».
Che idea ha della scena contemporanea?
«Secondo gli storici dell’arte ci sono state tre epoche in cui la produzione corrente è stata considerata superiore a quella del passato: il ‘400 fiorentino, l’arte olandese del XVII secolo e la nostra, segnata da una specie di fame per l’arte contemporanea. Quando un fenomeno cresce in modo così veloce e improvviso ci sono anche conseguenze orribili, come la trasformazione dell’arte in un investimento: sui media se ne parla quasi solo per i record delle quotazioni di un’asta o dell’altra. La fortuna, invece, sono le moltissime possibilità dell’oggi: il mio lavoro di artista visivo può infatti tranquillamente consistere anche in un suono, un concerto, un testo. Sono i benefici della dura battaglia iniziata da Duchamp e dai dadaisti un secolo fa con i loro stranissimi esperimenti. Accanto a loro, metto Masaccio, di cui ho appena rivisto vent’anni dopo gli affreschi della Cappella Brancacci, qui a Firenze. Ancora, fra i classici, Goya e Rembrandt mentre nel ‘900 scelgo Dziga Vertov, il grande regista russo, e il fotografo sudafricano David Goldblatt».
Pensa alla bellezza quando lavora? E alle tecnologie?
«È più uno sguardo tecnico il mio, che non un pensare alla categoria del bello. Mi concentro su come il disegno deve essere punteggiato o sulla giustapposizione di una spalla. Quel che conta davvero è come le immagini mi chiedono di esser disegnate, l’incontro a metà strada fra immagine e disegno. Uso le tecnologie specie per il montaggio e anche per le riprese perché in Sudafrica è quasi impossibile sviluppare la celluloide: ma le mie sono tecnologie elementari, visivamente sono più interessato a quelle meccaniche che a quelle invisibili del digitale».
Paolo Russo, la Repubblica 12/9/2014