Federico Rampini, la Repubblica 12/9/2014, 12 settembre 2014
OBAMA ATTACCA L’IS, GLI ARABI CON LUI L’EUROPA SI DIVIDE SUI RAID IN SIRIA
NEW YORK
Barack Obama promette di «indebolire fino a distruggere» i fautori dello Stato Islamico e del Grande Califfato. E con l’estensione dei raid aerei alla Siria, questa diventa la “sua” guerra, agli occhi degli americani e del mondo intero.
Il presidente affronta una prova cruciale, che definirà la sua eredità e darà il segno alla fine del suo secondo mandato. È stato trascinato in questo conflitto, da quei due video con le decapitazioni feroci dei due giornalisti americani, «sgozzati come capretti » secondo l’espressione dei loro carcerieri, fieri di esibire la loro ferocia davanti al mondo. Obama parla a loro quando dice: «Chi minaccia l’America non avrà tregua, lo braccheremo e non gli daremo scampo ».
È una promessa credibile, fatta dal presidente che ha eliminato Osama Bin Laden. Però proprio il ricordo di quel successo, che stabilì le credenziali di Obama nella lotta al terrorismo, dà anche la misura delle delusioni. Troppo presto la Casa Bianca aveva celebrato la sconfitta di Al Qaeda; per poi vederne rinascere cento teste, con nomi e sigle diverse, in altre aree del Medio Oriente, sotto nuovi capi che si proclamano perfino più puri e più duri della stessa “casa madre”. Obama ha evitato accuratamente di usare la parola guerra, nel suo discorso al Congresso e alla nazione mercoledì sera. Anzi ha voluto marcare le differenze. Questa non è l’invasione dell’Afghanistan 2001 o dell’Iraq 2003, due conflitti che lui aveva promesso di concludere e dai quali ha ritirato la stragrande maggioranza dei soldati americani. Ha paragonato la campagna contro l’Is (una delle varie sigle che definiscono i militanti sunniti dello Stato Islamico) alle operazioni già in atto in Somalia e nello Yemen. Ma quelle sono condotte con i droni, mentre per fermare l’avanzata dell’Is in Iraq e nel Kurdistan la U.S. Air Force ha già dovuto mobilitare ben altri mezzi. E poi le guerre non si vincono dai cieli, tant’è che perfino le limitate campagne in Somalia contro Shabab (altra “filiale” di Al Qaeda) si rivelano inconcludenti.
Per combattere in Iraq e in Siria, «guideremo una vasta coalizione». Qui riecheggia il George Bush padre della prima guerra del Golfo, quella lanciata nel 1991 per punire Saddam Hussein dell’invasione del Kuwait. Decisivo diventa il ruolo degli alleati arabi. Mercoledì, con un gesto davvero inusuale, Obama ha consultato un solo leader straniero prima di parlare alla nazione: il re saudita. L’Arabia ha già messo a disposizione le sue basi militari per addestrare quelli che dovranno veramente combattere, cioè i militari iracheni dell’esercito governativo e le milizie siriane dell’opposizione cosiddetta moderata. Già in questo ruolo dell’Arabia Saudita ci sono contraddizioni stridenti. Obama torna a doversi appoggiare su uno dei regimi più autoritari e reazionari dell’area, dopo essere stato il presidente che appoggiava le primavere arabe contro i dittatori (Mubarak). Le scelte che faranno i sauditi sul campo chi le controlla? È di ieri la notizia che il Fronte Nusra ha liberato i 45 caschi blu dell’Onu che teneva in ostaggio. Questa improvvisa “clemenza” potrebbe essere legata alla prospettiva di aiuti militari. Nusra è una scheggia di Al Qaeda, anche se nella complessa geografia delle milizie ora finisce quasi dalla parte dei “nostri” (combatte Assad ed è anche rivale dell’Is). Più ancora delle proteste di Russia Iran e Siria, concordi nel condannare l’annuncio di Obama come una «violazione di sovranità », l’America deve temere che i suoi aiuti in armi e addestramento finiscano ancora una volta in brutte mani. Il precedente dei mujahiddin afgani aiutati contro l’Urss e poi alleatisi con Osama Bin Laden, è solo il più clamoroso di quegli infortuni.
Anche sul piano interno Obama rischia molto. In una fase di impopolarità nei sondaggi che dura da tempo, comincia a perdere quota perfino nelle sue constituency fedelissime cioè donne, giovani, minoranze etniche. Ora si sta togliendo lui stesso uno degli ultimi fascini esclusivi che aveva: quello del presidente che non va in guerra, anzi chiude le guerre altrui. Ma aveva un’alternativa? I video delle due decapitazioni hanno provocato un cambiamento netto nell’opinione pubblica, un confine tra “prima” e “dopo”.
Prima c’era disinteresse, ora l’Is è un allarme nazionale. Ne hanno profittato i neoconservatori, i falchi che ispiravano George W. Bush: in un paese dalla memoria corta sono tornati in auge, dilagano nei talkshow come dopo l’11 Settembre, indottrinano la nazione sul da farsi e sugli errori di un presidente «senza strategie». Il rischio per Obama era di apparire ingenuo, debole, indeciso a tutto. Ha impegnato l’America per il minimo indispensabile di azione militare, sapendo che nulla lo protegge dal “mission creep”, il destino che risucchia inesorabilmente verso un’escalation (basta che l’Is atterri un caccia F-15 o catturi un plotone di “consiglieri-addestratori” americani). Probabilmente questa missione non si concluderà sotto il suo mandato, la erediterà Hillary Clinton — che a suo tempo voleva bombardare Assad… — o chiunque conquisti la Casa Bianca nel 2016. Per adesso anche l’Is entra nel tritacarne della campagna elettorale: si vota per le legislative a inizio novembre, i repubblicani hanno riscoperto le proprie orgogliose certezze in politica estera, e questo non prelude a nulla di buono.
Federico Rampini, la Repubblica 12/9/2014