Fabrizio Gatti, L’Espresso 12/9/2014, 12 settembre 2014
COSÌ ABBIAMO PERSO L’AUTO
Burnaston (inghilterra) Qui a Burnaston, sotto la pioggia fitta e sottile che bagna il Nord dell’Inghilterra, gli operai della Toyota escono a centinaia dalla fabbrica. Hanno cominciato alle sette e mezzo stamattina. Sono le sei di sera. Dieci ore di catena di montaggio, due di straordinario, più le pause. Costruiscono macchine a bassa emissione di anidride carbonica, in capannoni in parte alimentati da pannelli solari. Sì, proprio così: pannelli solari nel Nord dell’Inghilterra, anche se in una settimana il sole si è visto, sì e no, tre ore. Questo è il polo ecologico con cui la casa giapponese rifornisce gran parte del mercato europeo: compresi alcuni modelli ibridi, con motori elettrici e a benzina, che stanno sostituendo i taxi a Milano e a Parigi e si stanno diffondendo un po’ ovunque. Nelle stesse ore, negli stessi giorni del duello tra Sergio Marchionne e Luca Cordero di Montezemolo sul futuro della Ferrari, i bulldozer hanno invece demolito una volta per tutte un altro simbolo dell’industria italiana: lo storico stabilimento dell’Alfa Romeo ad Arese. Vi ricordate? Doveva diventare il nostro polo dell’auto ecologica: il progetto di grande fabbrica sostenibile, favorito dallo Stato con centinaia di milioni in finanziamenti alla Fiat e ore di cassa integrazione ai suoi dipendenti. È finita che l’Italia ha perso la Fiat, l’Alfa Romeo ha ridotto drasticamente modelli e vendite. Mentre sull’area della ex sede di Arese sarà costruito il più grande (così dicono) centro commercial-residenziale d’Europa. È il nuovo schema di società post industriale. Shopping e mattone, al posto del lavoro. Consumismo e bolla immobiliare, invece dello stipendio. Il contrario di quanto è successo agli operai inglesi a Burnaston.
Come faranno milioni di italiani a spendere senza più guadagnare è un dilemma che né la politica europea né il capitalismo nazionale hanno finora risolto. All’incontro annuale a Cernobbio su mercati e finanza, l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler ha comunque criticato l’Italia: «Purtroppo c’è la tendenza a discutere delle questioni economiche in termini ideologici». Tre i fattori fondamentali con cui Marchionne dice di essersi scontrato: il mercato del lavoro, la mancanza di certezza del diritto, la burocrazia. L’unica soluzione per sopravvivere sarebbe la fuga all’estero. Come ha deciso l’ex gruppo di Torino: sede legale in Olanda, residenza fiscale a Londra, produzione non solo in Italia, ma dove più conviene. È l’industria globale. Con il rischio che se ne vada anche la Ferrari dopo che, per le recenti delusioni in Formnula 1, Marchionne ha bocciato urbi et orbi Montezemolo, sostituendolo al vertice della società di Maranello. «È finita un’epoca, la verità è che ormai la Ferrari è americana», ha replicato in privato Montezemolo.
Non è necessario essere supermanager per rendersi conto che un’epoca è davvero finita e che la burocrazia, l’incertezza del diritto e spesso la certezza del rovescio stanno soffocando l’Italia. L’errore sta forse nel considerare un’azienda nazional popolare come la Fiat esclusivamente vittima e non beneficiaria di quel sistema che l’attuale amministratore delegato oggi condanna. Ma che in passato, anche dopo la globalizzazione dei mercati e l’introduzione dell’euro, ha permesso all’allora gruppo di Torino di ottenere aiuti e protezione dalla mediazione politica. E alla politica, ma anche al sindacato, ha restituito consenso in cambio di posti di lavoro.
Il polo italiano dell’auto ecologica è così una triste favola al contrario. Una storia in cui i dipendenti hanno idee più innovative dei loro manager: il piano nasce proprio dagli operai di Arese che tentano di dare un futuro sia all’impianto, sia a loro stessi. Le buone idee però non bastano a produrre nuove macchine e motori ecologici. Toccherebbe alla Fiat sviluppare i progetti, gli investimenti e una visione globale capace di guardare avanti. A parte una vaga apertura dell’allora amministratore delegato, Giuseppe Morchio, in una lettera al presidente della Regione Lombardia nell’ottobre 2003, è proprio ciò che è mancato.
Con la demolizione dei capannoni, i sacchi bianchi di polvere di amianto ammucchiati lungo la recinzione, il viavai di bulldozer e camion, di quel mondo resta adesso una spianata di macerie. L’unica traccia, vicino alla fermata dell’autobus in viale Alfa Romeo ad Arese, è il cartello malandato con il marchio della casa fondata a Milano nel 1910: il Biscione verde visconteo e la croce rossa su campo bianco, simbolo medioevale del Comune. L’enorme palazzina degli uffici mostra una rassegna di tapparelle da anni alzate, abbassate, sbilenche che nessuno ripara più. Il primo ottobre verranno licenziati e messi in mobilità altri dodici lavoratori dell’ex contabilità, come racconta Carlo Pariani, progettista nel gruppo di lavoro per la Seicento elettrica e la Multipla ibrida e storico sindacalista della Confederazione unitaria di base. Gli ultimi 79 dipendenti di Fiat e Powertrain, dei reparti di progettazione, sperimentazione e centro stile sono stati licenziati l’11 dicembre scorso. Oggi nella palazzina di Arese rimangono circa 400 addetti del servizio clienti: il call center che la maggioranza delle imprese globali ha delocalizzato in Paesi come l’Albania o la Romania. Si può dire insomma che la gloriosa catena di montaggio è stata ridotta a un centralino multilingue.
Il 24 aprile 2003 i quotidiani annunciano la chiusura definitiva di quella che ormai tutti chiamano l’ex Alfa di Arese. I numeri misurano le dimensioni dell’accordo di programma tra la Fiat e il governo. Un piano da realizzare in 5 anni: la produzione del Biscione è concentrata nell’altro stabilimento a Pomigliano d’Arco in Campania, due miliardi e mezzo di finanziamenti non solo privati, mille assunzioni. Mentre ad Arese oltre tremila lavoratori passano a carico dell’Inps: 2.400 sono dipendenti Fiat, il resto di società collegate e di Powertrain, la joint-venture con General Motor per fabbricare motori.
«Il progetto dell’auto a basso impatto ambientale», sostiene Carlo Pariani, «era fattibile. Il problema è che Fiat non ci ha mai creduto e lo ha sfruttato solo per incamerare finanziamenti, fino a quando ha potuto. La Regione Lombardia ci ha messo anche del suo, ha fatto un sacco di pasticci e non so se nemmeno loro ci abbiano creduto fino in fondo. Visto che Fiat è sempre stata contraria, c’erano stati contatti con Bmw. Ma non se n’è fatto nulla». Secondo un esposto presentato dai lavoratori alla Corte dei conti e al ministro per il Welfare, Roberto Maroni, attuale presidente della Regione Lombardia, soltanto per la piattaforma «Vamia», la vettura a basso impatto ambientale da produrre ad Arese, nel triennio 1996-99 Fiat ottiene finanziamenti pubblici per 238 miliardi di lire, quasi 123 milioni di euro. Ma la piattaforma Vamia viene sciolta già nel giugno 2001 dopo aver fabbricato appena le versioni a metano e gpl della Multipla. «L’accordo con la Regione sul vero polo ecologico di Arese arriva dopo, nel 2004», ricorda Pariani: «Aveva sostanzialmente due scopi: riprendere gli investimenti sull’auto ecologica e ampliare la ricerca su altri fronti. È stato tutto un disastro. Dei 107 milioni di euro deliberati dallo Stato con la finanziaria del 2005, si saprà poi che 40 milioni sono stati utilizzati per pagare i forestali della Calabria. Gli altri non sono mai stati spesi».
Il sindacato di base si costituisce proprio all’Alfa, durante lo scontro con Cgil, Cisl e Uil sull’integrazione nel gruppo Fiat dell’azienda del Biscione un tempo pubblica. Rifareste le stesse scelte? «La sorte di Arese è stata segnata non da noi ma soprattutto da quando Fiat e governo hanno concordato di costruire lo stabilimento di Melfi, in un periodo di non espansione. Questo avrebbe comportato, come poi è stato, la chiusura di Rivalta, Desio e Arese per eccesso di capacità produttiva. Cgil, Cisl e Uil nazionali, invece, hanno appoggiato il progetto di Melfi. Decretando di fatto la morte di Arese».
In mezzo alle pecore e alle mucche che pascolano su queste colline verdi del Derbyshire, la storia è andata molto diversamente. Burnaston è un villaggio di ricchi agricoltori, duecento residenti e nemmeno l’illuminazione pubblica notturna. Le strade buie in mezzo ai filari di biancospino sono trincee così strette da non lasciar passare due macchine affiancate. Nessuno degli abitanti lavora nello stabilimento Toyota, il primo aperto dalla casa giapponese in Europa nel 1992. E dal paese la fabbrica nemmeno si vede, circondata su tutti i lati da parchi e terrapieni ricoperti da alberi. L’unico accesso è dalla supestrada che collega Derby, la città più vicina, a Birmingham, un’ora di camion: un reticolo di vie di comunicazione veloci e senza pedaggio che salva dal traffico pesante i villaggi come Burnaston. Ne sanno qualcosa i nostri paesi del Nord, attraversati da colonne di Tir senza vie alternative.
Da quando è venuta qui ventidue anni fa, Toyota ha sfornato tre milioni e 250 mila macchine. E ha investito un miliardo e mezzo di sterline, meno di un miliardo e 900 milioni di euro: cioè molto meno dei due miliardi e mezzo spesi da Fiat nel piano quinquennale del 2005 per chiudere Arese e potenziare Pomigliano. Dopo un periodo di crisi e la riduzione delle ore di lavoro, gli ultimi 231 milioni di euro (185 milioni di sterline) arrivano a Burnaston nel 2012 per costruire i nuovi modelli di Toyota Auris. Non solo soldi, però. Anche millecinquecento operai in più. Così nel 2013 la produzione raggiunge le 179.233 auto: 62.148 quelle ecologiche con motori ibridi elettrici/benzina a bassa emissione di anidride carbonica. Dati in linea con la crescita del 3,5 per cento dell’industria automobilistica britannica che per il 2014 prevede l’uscita di 791 mila veicoli sui 764 mila dello scorso anno: di questi, il 79 per cento viene esportato. Mentre gran parte dell’area euro è prigioniera della recessione, non si ferma la corsa su base annua del Pil della Gran Bretagna: più 3,2 per cento nell’ultimo rilevamento a settembre.
L’ecologia nel polo inglese è rispettata anche nella catena di montaggio: zero rifiuti da destinare in discarica, zero materiale da incenerire, riciclo dei fumi per alimentare altri processi produttivi, recupero degli scarti di alluminio, impiego di vernici a base d’acqua. E riduzione delle emissioni di anidride carbonica con due grandi impianti fotovoltaici: dal sole si ricava l’energia per produrre fino a settemila auto all’anno a Burnaston e il dieci per cento dei 200 mila motori nell’altro stabilimento più piccolo, 553 operai a Deeside, in Galles. Da queste parti l’eliofania, cioè la durata media del soleggiamento giornaliero, raggiunge a malapena le sei ore in giugno con una media annuale di tre ore. Ad Arese sono nove. A Pomigliano dieci. Ma lì, zero pannelli solari.
Le similitudini dello stabilimento di Burnaston con quello che era l’Alfa Romeo sono impressionanti. Nel numero di dipendenti: 2.977 contro poco più di tremila ad Arese. E nelle dimensioni: 2,35 milioni di metri quadri l’estensione del sito, la stessa. Gli operai Toyota li incontri a fine turno nel parcheggio. Superano i cancelli a gruppi. Sembra l’uscita dalle officine Lumière, la famosa pellicola del 1895: una scena sempre più rara in Italia. Oppure li trovi il venerdì sera nella vicina Willington, al bancone del pub “The rising sun” e al “Dragon”. Una domanda semplice: è felice del suo lavoro? Il risultato è curioso. Nessuno vuole rispondere con nome e cognome. Su ottanta intervistati, nemmeno un’eccezione. Anche quando dicono sì, che sono sostanzialmente felici. Oppure quando spiegano che produrre auto al ritmo di una ogni 66 secondi è così massacrante che a volte non si può fare a meno di tirare l’andon, la corda d’allarme che blocca la catena e fa partire i rimproveri del caposquadra. Sostengono tutti che per il rigido codice di condotta Toyota non possono esporsi: «È come avere una dog watching cloud», il cane da guardia sulla testa, rivela un quarantenne, tre figli, casa in affitto e vacanze in Spagna.
Parlano di sanzioni disciplinari. «Fa parte del contratto», dice un giovane addetto alle verniciature: «Ti pagano il 20 per cento in più di qualunque altra industria, non c’è altro lavoro stabile in giro. È giusto rispettare il silenzio». Lo stipendio base di un operaio è l’equivalente di 2.055 euro netti al mese, 24.660 l’anno. Gli straordinari sono pagati da 16 a 24 euro netti l’ora, tra notturni e festivi. Con indennità e premi, un lavoratore senza qualifiche arriva a 34 mila sterline, 42.500 euro l’anno. Più i contributi per la pensione e l’assicurazione sanitaria privata che copre anche dentista e fisioterapie. Stesso trattamento per i 379 operai presi in affitto da un’agenzia: la principale differenza è che, in caso di calo delle vendite, loro sono i primi a perdere il posto.
Commentando il sondaggio de “l’Espresso”, la direzione britannica di Toyota osserva sorpresa che nessun dipendente è mai stato sanzionato per avere manifestato le sue opinioni personali. Dopo epoche di battaglie sindacali e fabbriche ferme per sciopero, anche l’autocensura è segno dei tempi.