Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 12 Venerdì calendario

ORA A PALAZZO COMANDA LA VIGILESSA


Il sottosegretario Graziano Delrio aveva bisogno di passare un po’ di tempo con i nove figli, aveva concordato con il premier una settimana di ferie: «Mi prendo i primi giorni di settembre». Non si può mai stare tranquilli, con Delrio in vacanza la sua Emilia è andata politicamente a pezzi, con i due candidati alla presidenza della regione, i renziani Stefano Bonaccini e Matteo Richetti, indagati per peculato. Ed è ripreso il pressing per candidare il sottosegretario nella regione rossa come salvatore della patria. Delrio doveva essere il Gianni Letta di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, ma il ruolo è stato occupato da un tandem di toscani. Uno pensa alle nomine, l’altra fa le leggi. Uno, il Lotti, inteso come Luca, sottosegretario, il “fratello minore” di Renzi (Delrio è il “maggiore”), gestisce il potere. L’altra deve trasformare i tweet di Renzi in realtà e del Letta originale ha ereditato l’invisibilità. Di sé dice: «Sono un soldato». Una combattente usa a obbedir tacendo, sul fronte più caldo, il passo dopo passo, il giorno dopo giorno, l’ordinaria, infernale quotidianità del governare.
Nel Palazzo hanno smesso di definirla la Vigilessa, come facevano fino a poche settimane fa. È stata a lungo considerata la dirigente che prima di prendere qualunque decisione avvertiva: «Il presidente dice che...», ora cominciano a temerla, si chiedono dove voglia arrivare. È vertiginosamente salita nella gerarchia renziana, informale e difficile da decifrare come una nomenclatura sovietica. Qualcuno la chiama la Governante. Perché deve rimettere a posto la babele di decreti fantasma, riforme annunciate ma non presentate, rivalità tra apparati. E fuor di metafora di confusione al primo piano di Palazzo Chigi ce n’è parecchia: mail, post-it, pennarelli, fogli svolazzanti, il pallone da rugby che Renzi ha riportato dal vertice Nato in Galles. Sembra una scolaresca irrequieta, invece è lo staff del premier.
Antonella Manzione, 51 anni, lucchese di Forte dei Marmi, ha guidato per anni i vigili urbani di Firenze. Nel suo curriculum vanta l’insegnamento di diritto negli istituti superiori, seminari su temi come “Il sinistro stradale”, “Disturbo della quiete pubblica e degrado urbano”, “La guida in stato di ebbrezza: criticità operative al momento dell’accertamento”, pubblicazioni su “I veicoli in stato di fermo, sequestro, confisca e abbandono”. E il romanzo “Miranda va alla guerra”, premio miglior scrittore 2010 (d’Europa? D’Italia? No, di Toscana), trama autobiografica: «Martina è una donna che, al vertice della carriera, si ritrova con la leadership in discussione...».
Dal mese di maggio ha cambiato materie: giustizia, pubblica ammistrazione, infrastrutture. Catapultata a Roma, alla guida del Dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio (Dagl), da cui passano tutti i decreti e i provvedimenti di legge del governo. Posto che in genere spetta a consiglieri di Stato e giuristi di fama. La Corte dei conti l’aveva bocciata per mancanza di requisiti, poi si sono trovati. La scommessa più azzardata del “cambioverso” renziano, quella che lo riassume tutto: trasformare una dirigente della provincia toscana nella domatrice di leoni nel circo da cui transitano le leggi del governo. Il pre-consiglio dei ministri, il palcoscenico prediletto da capi di gabinetto, direttori generali, capi degli uffici legislativi dei ministeri che si esercitano nello spettacolo d’arte varia della rivalità e del veto, «gente che vive nell’attesa di una telefonata da Palazzo Chigi, se non la ricevono impazziscono», racconta uno della schiera. Il regno del formalismo giuridico, dove la forma significa sostanza e potere.
Tocca alla Manzione domare le belve feroci dell’alta burocrazia. Antonella va alla guerra. Contro il partito dei consiglieri di Stato, l’apparato che si sente sfidato dalla gioiosa macchina da guerra renziana. E contro il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Roberto Garofoli, il rivale più ostico, oggi con Pier Carlo Padoan, ieri con Enrico Letta, l’uomo che deve approvare le misure del governo dal punto di vista finanziario.
Risultato: il caos. I due decreti che devono segnare l’inizio dei mille giorni di Renzi, lo Sblocca-Italia e la riforma della giustizia civile, sono stati approvati nel Consiglio dei ministri del 29 agosto, presentati alla stampa ma si sono poi inabissati, non sono pervenuti per giorni al Quirinale per l’esame presidenziale. Non è la prima volta che accade: il decreto sulla Pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia fu approvato dal governo il 13 giugno, ma arrivò al Quirinale undici giorni dopo. In mezzo, giri di bozze come a un tavolo da poker, intere parti cancellate, irritazione del Colle per un testo che di definito aveva solo il titolo. Ora ci risiamo. Nel transito dalle burocrazie ministeriali al pre-consiglio dei ministri al Consiglio e poi da Palazzo Chigi al Quirinale le norme mutano, cambiano pelle, svaniscono. Quella sulle aziende municipalizzate da accorpare doveva essere uno dei punti centrali del decreto Sblocca Italia e invece si è volatilizzata. La riforma della giustizia è oggetto del braccio di ferro tra la presidenza del Consiglio e il ministero di Andrea Orlando. Per non parlare dei litigi con i dicasteri di spesa più pesanti, Economia e Infrastrutture. Con la Manzione, tipa tosta, riconosciuta come una gran lavoratrice, che ha il mandato di avocare a Palazzo Chigi tutti i dossier. E i ministeri che oppongono resistenza. «Non è che i capi gabinetto siano diventati all’improvviso degli incapaci. Se i testi legislativi non arrivano sul tavolo della presidenza del Consiglio vuol dire che c’è chi li blocca per poi dare a Renzi la colpa della lentezza», racconta un dirigente di lungo corso. «È sempre successo che i decreti fossero approvati con la postilla “salvo intese”. Erano decreti-copertina, con i fogli in bianco. Almeno ora abbiamo le slides!».
Ma l’impasse in cui si trova il governo, improvvisazione, sovraffollamento, troppi treni che si accalcano sugli stessi binari, porta il segno della stagione renziana. L’accentramento di tutte le funzioni governative nella figura del premier e del suo ristretto gruppo di lavoro (i ministri sono ridotti a comparse, ogni nomina e ogni misura va approvata da Palazzo Chigi) cui non corrisponde una macchina in grado di girare a mille e una squadra affiatata. Nei progetti iniziali doveva organizzarla Delrio, ma le buone intenzioni si sono infrante sulla tensione tra il segretario generale Mauro Bonaretti, emiliano come il sottosegretario, e il clan toscano. Ora tocca all’ex vigilessa Manzione. Tra lei e Renzi la fiducia è assoluta, da quando l’allora sindaco di Firenze la chiamò a ricoprire un doppio incarico, capo dei vigili urbani e city manager di Palazzo Vecchio. In virtù delle sue capacità, ma anche delle sue parentele. Il fratello Domenico, magistrato, è stato a lungo pubblico ministero a Lucca, nella procura diretta da Giuseppe Quattrocchi, che fu promosso capo della procura di Firenze quando Renzi era sindaco. Oggi Quattrocchi, lasciata la magistratura, è consigliere del nuovo sindaco Dario Nardella, Manzione è sottosegretario agli Interni del governo Renzi, l’uomo di fiducia del premier al Viminale. E la sorella è la sentinella piazzata a Palazzo Chigi. Passata dalle strade di Firenze alle stanze del potere romano, pedina fondamentale del renzismo di governo, quello che non vive di selfie ma che punta a durare.