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 2014  settembre 12 Venerdì calendario

LE MANI DELLE LOBBY SULLA POLITICA

Sarà il 2017 l’anno zero per i partiti italiani. A partire da quella data, infatti, perderanno (almeno in parte) il lu­croso finanziamento diretto, previsto sotto forma di rim­borso elettorale. E dovranno in qualche modo reinventarsi. Non potranno infatti più contare su quel fiume di denaro che dal 1994 ( nonostante il referendum radicale del 1993 sull’aboli­zione del finanziamento pubblico) ha portato nelle casse del­le tesorerie dei partiti ben 2,7 miliardi di euro provenienti dal bilancio statale. La cifra ricevuta finora (nonostante recenti e continui tagli, molto rilevante quello del governo Monti che nel 2012 ha dimezzato il contributo da 182 a 91 milioni l’anno) è stata immensamente superiore alle spese elettorali documentate dai parti­ti. Il che ha permesso loro di condurre una vita piuttosto agiata, foraggiando convegni, corsi di formazione, feste, giornali, pubblicazioni e di stipendiare un certo numero di dipendenti. Nel prossimo futuro non potrà essere più così.

FONDI RIDOTTI MA NON ABOLITI
La nuova legge (n. 13/ 21 febbraio 2014, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26/02/2014, proposta dal governo Letta con decreto, modificata in Parla­mento e approvata nell’era Renzi) non elimina totalmente il finanziamento pubblico. Ma ne cambia la modalità, introducendo il meccanismo del 2 per mille (scelta volontaria e senza costi per il contribuente) sulla dichiarazione Irpef e aumentando la deducibilità delle dona­zioni dei privati ai partiti. Ma l’ammontare finale del 2 per mil­le resta, allo stato, molto aleatorio. Per­ché non si sa quanti italiani, in un cli­ma di sfiducia per i partiti, decideran­no di apporre la fatidica firma nella ca­sella della dichiarazione dei redditi. Il sito La Voce.it una prima, prudenziale stima l’ha fatta: considerando solo il 2 per mille di circa 2/3 degli iscritti ai par­titi (sono quasi due milioni i cittadini “tesserati”) , dovrebbero continuare ad affluire nelle tesorerie dei partiti alme­no 20-30 milioni di euro annui. Non po­chi, ma siamo molto lontani dalla cifra degli anni passati.
Non è dunque un caso che la legge pre­veda, accanto alla riduzione dei finan­ziamenti pubblici, anche l’aumento della deducibilità dei finanziamenti pri­vati ai partiti. Per queste elargizioni è stato apposto un tetto: non dovranno superare i 100 mila euro per ciascun partito. È chia­ro che la cura dimagrante imposta al finanziamento pubblico obbligherà i partiti a rivolgersi altrove per finanziare le attività politiche e le campagne elettorali, attraverso l’attività di cosid­detto fund raising. Ma quando si parla di finanziamenti priva­ti si entra inevitabilmente in un campo minato. Perché una co­sa sono i contributi di simpatizzanti o di militanti, un’altra quan­do i denari arrivano da aziende, imprese, gruppi industriali, so­cietà finanziarie e così via.

ELARGIZIONI DEI PRIVATI: QUALI CONTROPARTITE?
La domanda è d’obbligo: quali sono le contropartite chieste in cambio di questo foraggiamento? E quali le conseguenze per il sistema politico, tenendo conto (vedi intervista nella pagina accanto) che il tetto dei 100 mila euro è puramente sulla car­ta? Grazie a una legge troppo elastica i gruppi d’interesse po­tranno infatti oliare la macchina dei partiti con cifre molto più ragguardevoli dei 100 mila euro e, soprattutto, tenendole na­scoste all’opinione pubblica. La legge sul nuovo finanziamen­to dei partiti prevede infatti che vengano rese pubbliche solo quelle donazioni per le quali si chiede la deducibilità, lascian­do tutte le altre ’coperte’. Si capisce anche che l’obiettivo pri­mario di un potente gruppo industriale – che decide di investe svariate migliaia di euro nel finanziamento a uno o più partiti – non sembra essere quello di assicurarsi la deducibilità del proprio contributo. Entra insomma in ballo, prepotentemen­te, il discorso delle lobby, che in Italia continuano a muoversi senza alcuna regolamentazione. Il combinato tra riduzione di finanziamento pubblico e mancata trasparenza per i soggetti che finanziano i partiti comporta inevitabilmente il rischio di una “privatizzazione” della cosa pubblica.

IL MODELLO AMERICANO: TUTTO ALLA LUCE DEL SOLE
In America, dove i fondi alla politica vengono solo da privati, la regola adottata è quella della totale trasparenza: il cittadino a­mericano viene messo in grado di conoscere la lista completa dei finanziamenti e dei finanziatori di candidati e partiti. In più la società americana ha sviluppato una sensibilità particolare: esistono agenzie indipendenti capaci di monitorare il voto dei singoli parlamentari sui tutti provvedimenti di legge, compa­randoli con i finanziamenti ricevuti. Regole stringenti sulle lobby e sul finanziamento ai partiti esistono anche nella mag­gior parte dei paesi dell’Unione Europea. E da noi?
In Italia l’aggettivo trasparente non è mai andato di moda. Il ten­tativo di regolare lobby e lobbisti è stato, finora, sempre vani­ficato. Nel lontano 1988 il “rigorista” Beniamino Andreatta pro­pose di modificare i regolamenti parlamentari, per dare un no­me e un volto a quel popolo indistinto e opaco che affolla i cor­ridoi di Camera e Senato durante l’approvazione di leggi che toccano interessi economici rilevanti. Da quando è nata la Re­pubblica, si contano una cinquantina di provvedimenti di leg­ge miranti a rendere trasparente l’attività dei gruppi di pressione. Ma nessuno è mai andato in porto. Come ben sa l’ex ministro del governo Prodi Giulio Santagata, che nel 2007 provò inutil­mente a far approvare il «Registro pubblico dei rappresentan­ti di interessi particolari» o il deputato di lungo corso Pino Pi­sicchio, attuale presidente del gruppo misto alla Camera, che da quindici anni a questa parte, a ogni alba di legislatura, ri­presenta i suoi disegni di legge.

PISICCHIO: DA 15 ANNI PROVO A FRENARE LE LOBBY.
«Non voglio dire – spiega – che dietro la mancata approvazio­ne ci sia chissà quale oscuro disegno, ma certo il Parlamento nella programmazione dei suoi lavori è stato sempre disatten­to rispetto a queste tematiche». Pisicchio di provvedimenti ne ha presentati tre: uno per rendere trasparente l’attività di lobbying, uno per regolamentare i finanziamenti alle fondazioni politiche («Perché – dice – è inutile occuparsi dei fondi ai par­titi, se poi i privati possono finanziare senza regole le fondazioni che fanno capo ai partiti o a singoli politici»), l’ultimo per la re­golamentazione giuridica dei partiti stessi. Ricevendo fiumi di denaro, pubblico e privato, questi «devono comportarsi se­condo regole di assoluta trasparenza e secondo criteri di lega­lità e democrazia interna».

CI PROVO’ ENRICO LETTA, MA SENZA SUCCESSO
Giusto un anno fa, anche l’allievo prediletto di Beniamino An­dreatta, Enrico Letta, aveva predisposto da presidente del Con­siglio un provvedimento sulla regolamentazione delle lobby, che doveva andare, logicamente, di pari passo con la riforma del fi­nanziamento pubblico. Il testo (che non è stato mai reso noto) era molto severo. Prevedeva addirittura che in ogni ministero vi fosse un elenco pubblico di tutti i rappresentanti di interes­si economici che avessero avuto incontri con il ministro, con il suo gabinetto o con gli altri burocrati. Un’idea così l’aveva già attuata, senza aspettare la legge, il ministro dell’Agricoltura del governo Monti, Mario Catania, che aveva pubblicato sul sito In­ternet del ministero l’agenda dei suoi incontri con i lobbisti. Ma la proposta di rendere obbligatoria l’agenda degli incontri pro­vocò un’alzata di scudi. Si fecero subito sentire le voci contra­rie di molte aziende di Stato (Eni, Enel, Finmeccanica, ecc.) e anche di Confindustria. Mentre al Consiglio dei ministri del 1° luglio del 2013 il testo trovò la ferma opposizione di molti mem­bri del governo. Un partecipante a quella riunione di governo ricorda che Emma Bonino, titolare degli Esteri, paventò i rischi per gli investimenti delle multinazionali in Italia; Dario Fran­ceschini, allora ai rapporti con il Parlamento, motivò la sua con­trarietà sostenendo che un testo del genere non poteva essere diretta espressione del governo. La titolare dell’Agricoltura Nun­zia De Girolamo parlò di «proposta sovietica» e, spalleggiata dalla collega Anna Maria Cancellieri (Giustizia), oppose moti­vi organizzativi, affermando che sarebbe servita una struttura apposita per tenere nota di tutti gli incontri. Il ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello sostenne che, in tempi di anti­politica, dare in pasto ai giornalisti una mera lista di nomi, sen­za specificare contenuto ed esito degli incontri, avrebbe signi­ficato trasformare una norma di trasparenza in una sorta di caccia all’uomo.

ORA IN CAMPO IL MINISTRO MADIA
Tutte motivazioni ragionevoli e non prive di senso. Il testo sul­le lobby, però, non fu conseguentemente emendato. Ma diret­tamente affondato. E così la riforma del finanziamento ai par­titi è rimasta monca, senza il contrappeso fondamentale, che riguarda il diritto dei cittadini di conoscere i finanziatori dei partiti e il dovere di questi ultimi di assicurare la massima tra­sparenza.
Qualcuno nel governo Renzi si è accorto di questa grave lacu­na. Alla Funzione Pubblica, il ministro Marianna Madia ha in­tenzione di costituire un gruppo di lavoro sulle lobby. Ma il tempo stringe: il 2017 è alle porte.