Alessandro Campi, Il Messaggero 10/9/2014, 10 settembre 2014
I SEPARATISTI DELLA SCOZIA NEL TRAMONTO DEGLI IMPERI
Per strano che possa apparire, un filo rosso sembra legare il referendum scozzese, la guerra civile in Siria, il caos libico, la crisi militare tra Ucraina e Russia e la nascita del cosiddetto “stato islamico”. Si tratta di espressioni diverse di un medesimo fenomeno storico: la tendenza degli Stati tradizionali a disgregarsi e dividersi.
La modernità politica è stata caratterizzata, per circa quattro secoli, da un movimento storico che favoriva l’unificazione territoriale, l’accentramento delle funzioni burocratico-amministrative e la convivenza tra realtà sociali che mantenevano le loro specificità pur all’interno di una costruzione politicamente omogenea, che accettava il pluralismo dei valori. Quella che prevale oggi, nell’età cosiddetta post-moderna, è una spinta contraria: le comunità politiche, richiamandosi ognuna alle proprie tradizioni e memorie, tendono a separarsi. Per un lungo tempo l’unità politica è stata un valore. Oggi si enfatizzano l’indipendenza e la separatezza.
Questo movimento procede in forme molto diverse tra di loro. In Gran Bretagna è in corso una discussione appassionata, ma civile e democratica: sull’autonomia della Scozia i cittadini decideranno attraverso un referendum. In altre parti del mondo, specie dove le linee di divisione interne agli Stati hanno a che vedere con la dimensione etnica o con l’appartenenza religiosa, a parlare sono invece le armi: ci si separa ricorrendo alla violenza.
La prima modalità sembra un’eccezione, la seconda una tragica regola, ma non cambia la sostanza di ciò che sta accadendo. Gli Stati plurinazionali, come in fondo sono sempre stati la maggior parte degli Stati del mondo, sono in preda a spinte centrifughe che i governi centrali non riescono più a contenere. Vale per quelli di più antica tradizione storica, come è il caso della Gran Bretagna. Vale a maggior ragione per quelli – è il caso della Siria, della Libia o dell’Iraq – nati nel corso del Novecento sulla base di confini territoriali e di accorpamenti di popolazione imposti dalle ex potenze coloniali a tutela dei propri interessi.
Secondo alcuni osservatori questa spinta all’indipendenza rappresenta una vittoria della libertà. L’autodeterminazione collettiva è infatti l’altra faccia dell’autonomia individuale. Il tramonto della sovranità statale classica, cui oggi stiamo assistendo, non deve dunque spaventare: il centralismo politico tipico dello Stato moderno, dietro una facciata di pluralismo, implicava infatti il livellamento delle culture e delle identità, il controllo dall’alto della società e una forma strisciante di autoritarismo politico.
Secondo altri – tra i quali forse possiamo annoverare anche Papa Francesco – un mondo sempre più frammentato e diviso, all’interno del quale si moltiplicano le nazioni e le comunità che ambiscono all’autonomia politica, rischia invece di precipitare nel caos e di favorire una forma di conflitto endemico. La sovranità e il centralismo non stanno in realtà scomparendo, tendono semmai a moltiplicarsi, anche se su una scala territoriale sempre più ridotta.
Con questo movimento storico, che appare irrefrenabile, bisogna in ogni caso fare i conti. Soprattutto bisogna cercare di capire da cosa sia determinato. Dal bisogno di identità e dal senso di appartenenza? Dal rifiuto di una globalizzazione che mentre abbatte i confini dei vecchi Stati distrugge anche le culture storiche e le tradizioni ereditate dalla storia? Dal desiderio di far parte di una comunità che condivide gli stessi valori di fondo e le medesime credenze? Dal ritorno di fiamma delle credenze religiose che la politica aveva negletto?
Ciò che sta avvenendo in Scozia, al di là di certe letture romantiche e idealistiche, ci dice qualcosa di interessante su questa voga secessionistica: che appare in realtà largamente motivata, almeno all’interno dello spazio culturale europeo, da una concezione miope dell’interesse economico collettivo. Se i favorevoli all’indipendenza in quel Paese sono improvvisamente diventati la maggioranza – il 52 contro il 48 per cento – ciò è infatti dipeso, secondo la gran parte degli analisti, dal convincimento, maturato nel frattempo, che separarsi da Londra non determinerà alcun contraccolpo negativo sull’economia.
Anzi, forse ci sarà da guadagnarci. Un tempo gli scozzesi, poveri e depressi, apprezzavano il welfare state garantito loro dalle finanze del Regno Unito. Oggi – grazie al petrolio del mare del Nord – pensano di essere diventati un popolo finalmente benestante. Invocano il mito posticcio di Braveheart, ma pensano agli affari e a godersi da soli quest’inaspettata abbondanza. C’è da sperare per loro che non stiano sbagliando i calcoli.
Il separatismo odierno, in altre parole, è spesso il sogno delle regioni ricche e produttive, o che si trovano investite da una improvvisa ricchezza. Quanto ai richiami alla lingua madre, alle memorie degli antenati e ai costumi aviti, utilizzati per legittimare le proprie richieste d’indipendenza, sono soltanto la vernice logica di un disegno politico guidato dal calcolo del dare e dell’avere. Un calcolo legittimo, ma pericolosamente antistorico, anche perché improntato propagandisticamente ad un nazionalismo grossolano e obsoleto, che non tiene conto di un dato elementare: in un mondo sempre più globalizzato, nel quale non esistono confini invalicabili, nessuno può chiudersi a difesa del proprio benessere o pensare di non avere nulla da dividere col prossimo e con i propri vicini.
L’unione tra diversi, all’interno di un sistema di regole comuni, non fa più la forza. Ma è tutto da dimostrare che l’egoismo economico, il separatismo politico e il particolarismo territoriale garantiscano l’agiatezza collettiva e una convivenza civile più pacifica. Vale per la Scozia, vale per la Catalogna, ma vale naturalmente per chi immagina un lombardo-veneto staccato dall’Italia, prospero, potente e finalmente felice.