Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 09 Martedì calendario

“NOI ULTIME MISSIONARIE NELLE TERRE DEI SACRIFICI UMANI”

Non le conosceva, suor Anna Gastaldello. Ma, dice, le tre sorelle massacrate a Bujumbura sono il suo popolo, l’altra metà del cielo missionario che, indifferente all’età in genere piuttosto avanzata, presidia i più remoti tra i villaggi africani bussando con tatto femminile alle porte non sempre spalancate di comunità tradizionali e matriarcali. «In questa società noi donne abbiamo un valore aggiunto, possiamo stare più vicine degli uomini alla gente perché siamo ammesse ovunque» spiega al telefono da Juba, Sud Sudan, dove ha trascorso gli ultimi 16 anni dopo averne vissuti 9 in Kenya. «Ci si abitua a tutto tranne alle zanzare» scherza.
Suor Anna è nata nel 1962 a Rossano Veneto, provincia di Vicenza, in quel Nord italiano che a metà dell’800 ha visto partire alla volta dell’Africa sub-Sahariana molte religiose come lei, probabilmente la gran parte.
«A pensarci bene è vero, il “Lombardo Veneto” è stato una fucina straordinaria di missionarie, ipotizzerei che dipenda dalle origini settentrionali dei grandi capistipite, padre Comboni era originario di Limone sul Garda, don Bosco era piemontese, monsignor Conforti veniva dal Parmense» ragiona Paolo Annechini, portavoce della Fondazione Cum, la scuola di formazione dei missionari italiani con sede a Verona. Poi arrivò l’arcivescovo di Milano e futuro papa Montini.
«Era il 1956, un consorzio di imprese italiane vinse l’appalto per la costruzione di una grande diga nell’allora Rhodesia e, seguendo le indicazioni della enciclica Fidei Donum, il cardinal Montini ci chiese di andare al seguito degli emigranti, le prime suore sul campo. Da allora siamo rimaste lì, nell’ormai Zimbawe e nella vicina Zambia» racconta Maria Viganò, 80 anni, decana delle suore di Maria Bambina. Lei anche voleva andare e invece la mandarono in Giappone: «Si va dove serve di più, ma per me la missione per antonomasia era l’Africa».
Molte cose sono cambiate dall’età dell’oro delle missioni italiane. Dopo il boom degli anni ’60, gonfiato a ridosso del ’68 dall’ondata dei volontari non religiosi, le vocazioni hanno iniziato a scarseggiare. L’Italia detiene ancora il primato della presenza missionaria nel mondo ma è in pieno crepuscolo. Secondo dati incrociati di Cum e Santa Sede l’oltre milione di suore del 1970 era sceso a 82 mila nel 2001 ed è oggi ottimisticamente circa la metà (comprese le sorelle straniere). Il 53% ha più di 60 anni, il 21% è over 70.
«Le italiane in Africa sono sempre meno, ora il trend si è invertito, ma quelle che sono lì resistono da decenni, da quando alla fine del colonialismo c’era un continente da ricostruire e servivano maestre, infermiere, donne capaci di interagire con le famiglie» nota suor Elisa Kidané, 57 anni, eritrea d’origine e da tempo direttrice di «Combonifem», il magazine femminile dei comboniani. Il fondatore, insiste, fu pioniere nel puntare sulle suore: «Già nel 1870, di ritorno da numerosi tentativi fallimentari nella terra che lui chiamava “le Afriche”, padre Comboni scriveva di aver capito che la ragione dell’insuccesso nell’inserirsi nelle diverse comunità era nel non aver portato con sé le donne». Il valore aggiunto di «Noi figlie d’Africa», come scrive nell’omonimo libro del 2006 suor Daniela Maccari, oggi «inviata» in America latina.
Le religiose non si occupano dei sacramenti ma di tutto il resto. Che in un luogo come l’Africa è sconfinato. Suor Paola Moggi se ne accorse prima di prendere i voti a 28 anni, quando neo laureata dentista partì come volontaria. Adesso, dopo 17 anni di Kenya e Sud Sudan, la 52enne Paola è tornata a Verona: «Mi sto accorgendo che la sfida dell’incontro con l’altro è qui, quando partii nel ’97 non c’erano quasi immigrati in Italia». Le ossa alla ricerca del senso della vita se le è fatte nel cuore di tenebra: «La molla è vivere in modo fruttuoso il passaggio su questa terra, capire l’essenziale. In Africa ho imparato a conoscere lingue e sensibilità diverse. Ho vissuto in una regione che si chiama Pokot e che non si è neppure accorta dell’11 settembre 2001: gli abitanti fanno ancora sacrifici umani e per placare l’ira degli spiriti che gli avevano mandato una forte siccità erano pronti a immolare uno del clan».
Suor Anna, suor Maria, suor Elisa, suor Paola. «In missione, l’amore al femminile mi pare caratterizzato anche da una certa follia, che consiste nel soccorrere i deboli (...) mentre la guerra uccide le persone a migliaia» scrive nel suo diario «In cammino con il Vangelo» un’altra bergamasca, suor Teresina Caffi, veterana di Congo e Burundi. Lo stesso popolo, l’altra metà del cielo.
Francesca Paci, La Stampa 9/9/2014