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 2014  settembre 09 Martedì calendario

QUESTA VOLTA LA VITTIMA È HERCULE POIROT

Li abbiamo letti. Riletti quando ci eravamo dimenticati chi fosse l’assassino. Poi ri-riletti anche quando ce lo ricordavamo. Infine ri-ri-riletti quando la Mondadori li ristampava in una nuova edizione.
Magari tradotta meglio e meno tagliata delle precedenti.
Li abbiamo messi in valigia quando partivamo. Abbiamo discusso dei loro meriti e litigato sulle trasposizioni cinematografiche o televisive. Alla fine, nel lessico famigliare, non erano più «un giallo della Christie» ma «un Poirot» o «una Miss Marple» (esattamente come un romanzo di Simenon è sempre stato «un Maigret»).
Di conseguenza, quando è arrivata la notizia che gli eredi di Dame Agatha avevano deciso di resuscitare Poirot, ogni vero Christie-dipendente è rimasto lacerato dai dubbi come un eroe di Corneille. Da un lato, l’opportunità di allargare il canone, perché 33 romanzi e 54 racconti non sono certo sufficienti a placare la nostra sete di sangue (si fa per dire, poiché nulla è più asettico di un omicidio della Christie. Fatti i rilievi del caso, i cadaveri spariscono con la stessa puntualità con la quale viene servito il tè delle cinque). Dall’altro, lo scetticismo, perché «un Poirot» non scritto dalla Christie suscita delle perplessità ancora prima di aprirlo.
In fin dei conti, era stata proprio lei, durante la Seconda guerra mondiale, a farlo morire nell’ultima avventura, Sipario. Non aveva mai amato il suo personaggio più famoso, a differenza di Miss Marple in cui traspare tutta la tenerezza per le sue nonne e le zie ancora vittoriane e, forse, anche per quell’Inghilterra. E infatti la Christie infierì: prima di ucciderlo, mise il povero Poirot sulla sedia a rotelle, storpio, malato, a indagare nella stessa casa di campagna, Styles Court, dove aveva debuttato durante la guerra precedente. Ma poi tenne il romanzo in cassaforte e si decise a tirarlo fuori solo nel 1975. L’impeccabile, implacabile simmetria di Poirot si vendicò subito. E lei, la scrittrice più venduta al mondo, morì nel ’76.
Adesso gli eredi hanno deciso che si può fare con Poirot quello che è già stato fatto con James Bond o Sherlock Holmes: una nuova avventura non d’autore. Per scriverla, è stata arruolata la giallista Sophie Hannah. E, dopo un gran battage pubblicitario, qualche anticipazione saggiamente distribuita ed embarghi severissimi, oggi è il giorno dell’uscita planetaria di Tre stanze per un delitto (Mondadori, pp. 312, € 18).
Siamo nel 1929 e la scelta non è casuale perché in quell’anno non uscì alcun Poirot «vero», quindi non si sa cosa il belga più famoso del mondo abbia fatto. Secondo la Hannah, ha deciso di prendersi un mese di vacanza, senza lasciare Londra ma solo l’amato appartamento tutto squadrato e simmetrico per evitare di essere disturbato da qualche «caso» urgente. Così ha traslocato in una pensioncina e ogni giovedì, poiché la proprietaria quel giorno non cucina, va a cena al Caffè Pleasant dove, nonostante i cuochi siano inglesi, si mangia bene (e qui, già alle prime pagine, s’insinua il dubbio: Poirot ha sempre detestato la cucina inglese, il cibo inglese e perfino il modo inglese di organizzare i pasti nella giornata, perché il tè delle cinque impedisce di arrivare alla cena con i succhi gastrici in perfetta efficienza). Lì entra una donna sconvolta e parte l’intrigo.
Letto (in fretta) il libro, l’impressione è che Tre stanze per un delitto non funzioni. Sta alla Christie come Cameron alla Thatcher: una pallida imitazione. Poirot, sì, fa funzionare le celluline grige e lancia volonterosamente frasi in francese, perfino troppe, però non ha l’animazione dell’originale. Non c’è l’umorismo della Christie, non c’è la sua arte del dialogo, non c’è il suo senso acutissimo delle differenze sociali e, quando l’azione si sposta in un paesino, Great Holling, non ci sono nemmeno le sue deliziosissime descrizioni dell’Inghilterra rurale pettegola e classista, quasi un’Arcadia in negativo.
In compenso, c’è troppo romanzo, se così si può dire. La Christie ha fatto della buona letteratura minore appunto perché non ha mai avuto la pretesa di fare della letteratura. Qui la spalla, un giovane investigatore di Scotland Yard, Edward Catchpoool, ha perfino dei complessi e, quel che è peggio, ne parla, laddove il capitano Hastings si limitava a essere stupido. Insomma, Tre stanze per un delitto forse non è un cattivo giallo. Ma certamente è un pessimo Poirot.
Alberto Mattioli, La Stampa 9/9/2014