VARIE 9/9/2014, 9 settembre 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - COTTARELLI SE NE VA
PEZZO DELLA STAMPA DI STAMATTINA
ALESSANDRO BARBERA
Cottarelli presenta i suoi tagli
Summit con Renzi e Padoan
Riduzioni di spesa per 10-12 miliardi, la sanità contribuirà per tre
Alessandro Barbera
Si scrive tagli lineari, si legge revisione della spesa. A scorrere la lista dei risparmi che il governo pensa di introdurre nella prossima legge di Stabilità, cogliere la differenza fra le due impostazioni talvolta è impercettibile. Aumentare le sinergie fra le forze di sicurezza è un taglio lineare ai ministeri vigilanti o rientra nella cosiddetta «spending review»? Se si riducono i contributi alle imprese pubbliche - sul tavolo c’è una ipotesi che prevede di risparmiare due o tre miliardi - si sta ripensando la spesa come ha proposto Cottarelli o è una sforbiciata al bilancio del ministero dello Sviluppo economico? C’è una precisa ragione politica che ha spinto Renzi a cambiare verso (alla comunicazione) dei sacrifici che il governo sarà costretto a imporre nel 2015: la revisione della spesa è lenta e costa di più ad alcuni piuttosto che ad altri. I tagli lineari - o “semilineari” come li chiama qualcuno a Palazzo Chigi - appaiono più giusti: ciascun ministro è costretto a fare la sua parte, cercando i risparmi dove possibile. Come giustificare diversamente il blocco dell’aumento contrattuale ai tutti i dipendenti della pubblica amministrazione?
In ossequio a questa impostazione Renzi, a partire da domani, incontrerà uno ad uno tutti i ministri: a ciascuno di loro - così ha spiegato - chiederà un contributo più o meno pari al tre per cento del bilancio che gestiscono. Questo significa - a titolo di esempio - che dovrà pagare dazio per almeno tre miliardi anche la spesa sanitaria, la quale assorbe più di cento miliardi l’anno. Beatrice Lorenzin non vuol sentir parlare di tagli, semmai di introduzione dei costi standard per le forniture ospedaliere: il confine è labile, la sostanza è sempre la stessa, ovvero che il costo complessivo della spesa sanitaria dovrà scendere. La Farnesina dovrà ridurre i costi della rete diplomatica e consolare: comunque li si chiamerà, saranno tagli ai costi di alcune sedi ritenute ormai inutili o sovradimensionate. Se i calcoli di Roberto Perotti (professore alla Bocconi e uno dei papabili della squadra di Renzi a Palazzo Chigi) saranno presi in considerazione, il taglio riguarderà anche le indennità dei diplomatici.
Per impostare il lavoro ieri a Palazzo Chigi c’è stato un vertice di Renzi con Padoan, il consigliere economico del premier Gutgeld, lo stesso Cottarelli: per lui è stata una delle ultime riunioni prima del rientro a Washington, dove sarà direttore esecutivo per l’Italia. Ma ciò accadrà alla fine di ottobre, quando la legge di Stabilità sarà alle Camere e sul tavolo della Commissione europea. L’ammontare della manovra è deciso: circa venti miliardi di euro. In forse è l’ammontare dei tagli: dodici miliardi di euro o anche solo dieci, nel caso in cui Bruxelles dovesse accettare coperture diverse. La riduzione dello spread vale un paio di miliardi, poi ci sono le entrate da lotta all’evasione, l’aumentato gettito Iva per via del pagamento degli arretrati della pubblica amministrazione, e così via.
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CORRIERE DELLA SERA
ANTONELLA BACCARO
ROMA — Carlo Cottarelli riprenderà servizio al Fondo monetario internazionale a Washington, a ottobre. Su indicazione del governo italiano. Un incarico che lo riporterà peraltro molto probabilmente in Italia, sia pure non in pianta stabile. L’ultimo tassello che serviva per rendere concreto l’addio del commissario alla spending review (l’incarico assunto il 23 ottobre scorso dalle mani del premier Enrico Letta era triennale) è andato a posto. Chi si aspetta un addio col botto, di quelli teatrali che lasciano il segno, può dormire tranquillo. Carlo Cottarelli andrà via senza polemiche che possano gettare una luce negativa sul governo italiano, invocando, tra gli altri, motivi di natura familiare.
Così anche le sue ultime mosse come commissario sono, in maniera evidente, all’insegna di un’attiva collaborazione. Come la sua presenza ieri a Palazzo Chigi nella riunione preparatoria degli incontri sulla spending review, che saranno tenuti dal premier e dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: una delle ultime presenze ufficiali di Cottarelli.
Del resto, chi volesse leggere tra le righe di tanta discrezione i segnali di quello che sta accadendo, potrebbe farlo, notando, ad esempio che ieri nella riunione cruciale sui tagli da 20 miliardi compariva per la prima volta Yoram Gutgeld, il consigliere economico del premier, che dovrebbe prendere il posto di Cottarelli nella nuova fase di attuazione dei tagli alla spesa.
Al ministero dell’Economia, dove ieri non confermavano ma non smentivano nemmeno l’addio dell’economista del Fondo monetario, si spiega che il suo operato sarà la base di partenza per tagli che poi però saranno frutto di «scelte politiche», come a rimarcare che il lavoro del commissario può considerarsi concluso e che da ora in poi la «logica sarà un’altra».
Si avvia così al termine, fissando concordemente con il governo il giorno più adatto per l’ufficializzazione, il lavoro del terzo commissario alla spesa, dopo Pietro Giarda e Enrico Bondi. Il 60enne cremonese, dal 1988 al Fmi, dopo una carriera in Bankitalia e all’Eni, con la passione per l’Inter, dopo una partenza all’insegna della comunicazione, una raffica d’interviste tra novembre e dicembre 2013, scelse, con l’avvento di Renzi premier, a febbraio, una linea più defilata. Dopo mesi di lavoro febbrile, si avvicinava il momento di affondare il bisturi nella «carne viva» della spesa pubblica. Il programma triennale, pubblicato sul sito personale, prevedeva per maggio «l’implementazione delle misure a livello legislativo, con effetti distributivi nel 2014 e nel corso del triennio successivo». Per centrare l’obiettivo, a marzo Cottarelli tentò l’allungo, presentando quel lavoro di ricognizione sulla spesa pubblica, suddivisa in 33 voci «tagliabili», che rappresenta oggi una pietra di paragone non aggirabile per chiunque voglia continuare la sua avventura. Tabelle ricche di dati da cui però il premier Renzi prese subito le distanze, respingendo, ad esempio, l’idea di tagli alle pensioni che Cottarelli aveva quantificato in 2,5 miliardi per il 2015, e relegando il lavoro del commissario a quello di «un tecnico che propone» rispetto al «politico che dispone».
Che l’aria con Renzi fosse cambiata, a Cottarelli è apparso dunque chiaro da subito. L’innegabile scontro, agli inizi di agosto, sullo sblocco dei pensionamenti degli insegnanti «quota 96», bollati dal commissario come «nuove spese» la cui «copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa o, in assenza di queste, attraverso tagli lineari nelle spese ministeriali», ne è stato il culmine. Tuttavia Cottarelli ha continuato a lavorare, incontrando i numerosi gruppi che hanno prodotto un materiale che sarebbe a questo punto interessante conoscere. Di tutto questo invece il commissario ha scelto di comunicare ben poco. Lo ha fatto, ad esempio , convocando una conferenza stampa sui tagli alle partecipate locali il giorno dopo che l’articolato che avrebbe cominciato a darne attuazione era stato espunto dal decreto Sblocca-Italia, perché non omogeneo. Un modo per rivendicare il lavoro svolto, in qualsiasi modo venga utilizzato.
Antonella Baccaro
CORRIERE DELLA SERA
MASSIMO FRANCO
Martedì 9 Settembre, 2014
CORRIERE DELLA SERA
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Un cambio ormai scontato con la priorità di rassicurare l’Europa
di Massimo Franco
L’incontro di ieri sera a Palazzo Chigi tra Matteo Renzi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e Carlo Cottarelli, regista finora della strategia del governo per la riduzione della spesa pubblica, non è avvenuto in un clima propriamente euforico. Le voci di una crisi di rapporti tra presidente del Consiglio e tecnico del Fondo monetario internazionale sembrano preludere alle sue dimissioni. Per il governo, il problema è di limitare il più possibile l’impatto che un’uscita brusca di Cottarelli potrebbe avere a livello internazionale. Il timore è che, per quanto ventilato da tempo, il suo abbandono lasci un’orma profonda nel percorso virtuoso che Renzi cerca di accreditare presso le cancellerie europee.
Apparirebbe la conferma dell’affanno di Palazzo Chigi sulla politica economica. Soprattutto perché metterebbe un punto interrogativo sulla capacità e la volontà di spiegare al Paese la vera realtà dei conti pubblici. E incrinerebbe la credibilità delle riforme agli occhi di una commissione europea e di una Bce che non possono permettere scarti rispetto ai vincoli di bilancio. Oltre tutto, le voci di un ritorno di Cottarelli al Fondo Monetario Internazionale, magari rimanendo a Roma, filtrano nel giorno in cui Padoan confessa al Financial Times di temere un terzo trimestre di riduzione del Pil italiano; e che occorreranno «minimo tre anni» per vedere gli effetti delle riforme. Il successore di Renzi a Firenze, Dario Nardella, tesse le lodi della «rivoluzione» che la sua generazione starebbe promuovendo. Ma l’operazione rimane in bilico.
La crisi economica corregge al ribasso l’ottimismo. La sfida sulla flessibilità che il presidente del Consiglio italiano ha ingaggiato con la Commissione Ue forse sarà più facile in casa, con la rimozione di un potenziale ostacolo come Cottarelli. Potrebbe tuttavia moltiplicare i dubbi e lo scetticismo a livello internazionale, nonostante la sponda di un altro Paese in crisi come la Francia, e il fascino che il «modello Renzi» esercita in alcuni partiti socialisti. I sondaggi confermano un premier tuttora ben visto da metà della popolazione. Oltre confine, in Germania, si nota invece una freddezza accentuata. Va registrato il commento agrodolce del ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schauble, secondo il quale Renzi ha scelto «l’approccio assolutamente giusto sulle riforme strutturali. Posso solo sperare che abbia successo».
Ma Schauble aggiunge subito dopo: «Se con l’aumento del debito si fossero potuti risolvere tutti i problemi, l’Italia non avrebbe nessun problema». Sono chicchi di diffidenza non isolati, che la Germania semina come ammonimenti dei quali palazzo Chigi deve tenere conto. D’altronde, più ci si avvicina alle decisioni, più sta diventando chiaro che le modifiche costituzionali sul Senato o la legge elettorale contano assai meno dei problemi del fisco o del lavoro, e della diminuzione delle spese. Gli alleati insistono sull’esigenza di prendere di petto in primo luogo l’economia. E il punto è perché Cottarelli sembri deciso a gettare la spugna. Si intuisce la volontà di Renzi di riaffermare il primato della politica sui cosiddetti «tecnici»: un atteggiamento non solo comprensibile ma da accogliere positivamente.
Se però il commissario alla spending review , l’uomo della mappatura degli sprechi, si prepara a lasciare proprio mentre comincia questo tipo di lavoro, qualche domanda è legittima. Per il momento, la risposta rimane in sospeso di fronte all’esigenza di mostrare determinazione nei «tagli» al bilancio dei ministeri: anche perché tra giovedì e venerdì ci sarà una riunione informale dell’Ecofin, il gruppo dei ministri economici dell’Ue, a Milano. Il fatto che nella lunga riunione di ieri a palazzo Chigi fossero presenti anche Maria Elena Boschi, titolare delle Riforme istituzionali, e il consigliere economico di Renzi, Yoram Gutgeld, dice molto sulla cerchia delle persone di cui il presidente del Consiglio si fida davvero; e sulla sua volontà di avere un pieno controllo su quanto sta per essere deciso.
CORRIERE DELLA SERA
ENRICO MARRO
Ora che, come sembra, Carlo Cottarelli lascerà l’incarico di commissario straordinario per la spesa pubblica per tornare al Fondo monetario internazionale, Matteo Renzi non avrà più alibi: sarà lui direttamente, proprio come voleva, a scegliere dove e quanto tagliare. Perché si tratta di scelte politiche, come ha giustamente detto più volte il presidente del Consiglio, che non possono essere delegate a un tecnico, sia pure super. Cesserà così quel conflitto più o meno latente tra le proposte del commissario e le decisioni del governo: se quest’ultimo non si attiene ai suggerimenti del primo, tutti si chiedono a che cosa serve il commissario; se viceversa si adegua, subito si alzano i critici della politica vittima dei tecnocrati. Visto com’è andata, è meglio fare a meno del supercommissario.
Ne abbiamo già avuti almeno tre, tutti molto competenti. Piero Giarda, uno che conosce a memoria le pieghe del bilancio dello Stato e che era giunto alla conclusione che la spesa realisticamente «aggredibile», sulla quale cioè si può lavorare per ridurla, non supera i 100 miliardi di euro, su un totale di 800 miliardi che ogni anno Stato, Regioni ed enti locali spendono. Poi il governo Monti nominò Enrico Bondi, anziano manager con gran fama di tagliatore e risanatore di aziende, che è finito isolato, vittima del suo metodo di lavoro accentratore e solitario. Infine è arrivato Cottarelli, voluto dall’ex primo ministro Enrico Letta: grande esperienza negli organismi internazionali, piglio americano, ha ribaltato il metodo Bondi, costituendo decine di gruppi di lavoro con i migliori funzionari dell’amministrazione messi a studiare, settore per settore, dove tagliare. Un lavoro certosino che lascia in eredità una serie di proposte che, sommate tra loro, ridurrebbero le uscite pubbliche di 17 miliardi l’anno prossimo e 32 nel 2016. Proprio quello che voleva il governo.
Solo che Cottarelli ha messo nel suo menu anche quelle voci scomode, impopolari, che non poteva non mettere se voleva appunto raggiungere un taglio della spesa a regime pari a due punti di prodotto interno lordo. Vi ha cioè incluso la riduzione dello Stato sociale: tagli alla sanità, alle pensioni assistenziali e ha suggerito un contributo sulle pensioni calcolate col retributivo. Misure dure da digerire per Renzi, che ha spiegato che non sta scritto da nessuna parte che per governare bene bisogna essere impopolari. Salvo ritrovarci a discutere di un taglio del 3% alle spese dei ministeri ma anche della solita proroga del blocco delle retribuzioni pubbliche, che però rischia di scatenare la rivolta degli impiegati. Del resto è inutile nasconderselo: tutti gli ultimi governi, politici o tecnici che siano stati, quando hanno dovuto decidere i risparmi maggiori, non hanno saputo fare di meglio che bloccare gli stipendi pubblici e l’indicizzazione delle pensioni al costo della vita. Senza queste due misure nessuna manovra di risanamento dei conti sarebbe stata in piedi. Cottarelli ha detto anche delle verità scomode, come dimostra il dibattito delle ultime settimane: che di 8 mila municipalizzate ne potrebbero bastare mille, chiudendo tutti i carrozzoni clientelari in perdita e accorpando le microaziende dei piccoli Comuni; oppure che 5 corpi di polizia non hanno senso, oltre che paragoni all’estero. Ma apriti cielo!
Ora tocca a Renzi, senza più filtri. E al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Il primo ha alzato l’asticella per il 2015: la spesa pubblica si può tagliare di 20 miliardi, ha detto, senza spiegare dove. Il secondo non sa ancora come evitare la scomoda eredità del governo Letta: trovare nel triennio 20 miliardi di euro di tagli altrimenti scatterà la riduzione delle agevolazioni e degli sgravi fiscali, cosa che Renzi ha detto non deve accadere. In teoria, come ha spiegato più volte il premier, su 800 miliardi di euro di spesa pubblica dovrebbe essere facile realizzare un risparmio di 16-20 miliardi, il 2-2,5%. Se una famiglia dovesse ridurre le proprie spese del 2-2,5% l’anno volete che non ci riesca? si è retoricamente chiesto. Dipende. Se la famiglia è indebitata per un importo pari al 135% del proprio reddito, come l’Italia, lo può fare solo se prima convince se stessa che ha vissuto per troppo tempo sopra le proprie possibilità. È la prima cosa che ha detto, un paio di settimane fa, il neo primo ministro francese, Manuel Valls, 52 anni, socialista: «La Francia ha vissuto per 40 anni al di sopra dei propri mezzi». E noi?
INTERVISTA A GIARDA
LORENZO SALVIA
ROMA — La sua passione per la spending review comincia nel 1958, sul sedile di un Tir, nello Yorkshire: «Avevo 20 anni, giravo l’Inghilterra in autostop e mi prese su un camionista. Per tutto il viaggio ripeteva: “Qui per un lavoro da tre persone ne usiamo cinque”. Mi sembrò un’analisi interessante». Da allora Piero Giarda si è sempre occupato di revisione della spesa pubblica. Sia da economista sia da tecnico prestato alla politica, come presidente della apposita commissione voluta da Beniamino Andreatta nel 1982 e come responsabile per la spending review del governo Monti, lasciando in eredità un corposo rapporto su diversi settori di spesa.
Professore, di questo tema si parla da anni ma poi è sempre difficile arrivare al dunque. Anche il commissario Carlo Cottarelli è ormai vicino all’addio. Sorpreso?
«La spending review è un’attività lunga e complessa. È finalizzata al riordino dell’organizzazione di pezzi del settore pubblico e punta a risparmiare risorse o produrre servizi più efficienti. Per concludersi ha bisogno di orizzonti temporali di medio periodo, più lunghi del mandato di un governo».
Sta dicendo che la spending review non è compatibile con il continuo cambio di governi visti in Italia?
«Non necessariamente. In alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, i programmi sulla spending sono trasmessi da un governo all’altro. Ma non hanno mai l’obiettivo di generare risparmi immediati».
Qualche tempo fa disse che Cottarelli era stato impaziente. Lo crede ancora?
«Mi riferivo alla presentazione del suo primo rapporto,quando si parlò dei famosi 32 miliardi da tagliare. I lettori ne ricavarono l’impressione di un albero con tanti frutti da cogliere così, senza nemmeno il bisogno di una scala. E invece gli interventi sulla spesa pubblica richiedono sempre molta attenzione per i dettagli. Ma non è stata certo colpa di Cottarelli».
È possibile risparmiare l’anno prossimo 16 miliardi di euro, o addirittura 20 come dice Renzi?
«Mi sembra difficile arrivare a quella cifra semplicemente attaccando le aree di inefficienza. Forse il governo dovrà avere il coraggio di proporre interventi che tocchino natura e dimensione dell’intervento pubblico ».
Renzi vuole tagliare del 3% le spese di ogni ministero.
«Questa non è spending review ma un semplice taglio di spesa, simile a quelli spesso visti in passato. Naturalmente si tratta di una scelta legittima e forse anche ineludibile se si vuole fare spazio ad altre politiche, come la riduzione del deficit o delle tasse».
Tagliare la spesa pubblica adesso che siamo in deflazione non rischia di far avvitare ancora di più la crisi?
«Dipende da quali spese vengono tagliate e, soprattutto, da cosa si fa con i soldi risparmiati. Se servono per alleggerire il carico fiscale non credo ci sia questo rischio».
Il bonus da 80 euro, però, non ha dato gli effetti sperati sulla ripresa. Non c’è il rischio di fare un altro buco nell’acqua?
«Aspetterei a dirlo. I tempi che occorrono normalmente perché l’aumento del reddito disponibile legato alla riduzione delle tasse si trasferisca verso un aumento della spesa, non sono mai inferiori ad alcuni mesi. I primi parziali effetti si vedranno nel terzo trimestre. Per l’effetto completo ci vorrà ancora più tempo».
Ma in questi mesi lei Cottarelli l’ha visto?
«Credo fosse il giorno del suo arrivo a Roma, appena atterrato. Poi ci siamo sentiti qualche volta. Ha svolto un ottimo lavoro di tecnico, utilizzando collaborazioni di primo piano e preparando rapporti molto interessanti».
Lorenzo Salvia
SECONDO PEZZO DELLA BACCARO SUI TAGLI AI MINISTERI
ROMA — Iniziano domani, salvo cambi di programma del premier, gli incontri tra Matteo Renzi con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e i singoli ministeri per realizzare l’annunciato taglio del 3% delle relative spese. Mentre a partire da oggi il Pil (prodotto interno lordo) sarà calcolato in base ai nuovi indicatori, che considerano anche i proventi dell’attività illecita. I primi effetti sui conti pubblici saranno resi noti il 22 settembre.
Ieri c’è stata a Palazzo Chigi una riunione preparatoria di metodo cui hanno partecipato anche il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, il consigliere economico di Renzi, Yoram Gutgeld, e il commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Come si possa arrivare ai 20 miliardi di tagli indicati dallo stesso presidente del Consiglio come obiettivo, a via XX settembre nessuno ancora sembra saperlo. Si fa osservare, ad esempio, che applicando il 3% non all’intera spesa pubblica (800 miliardi) ma alla stessa al netto degli interessi (717 miliardi), l’obiettivo sarebbe più che realizzato. Ma è chiaro che non si procederà così, se sono vere le affermazioni fatte dallo stesso premier sul fatto che la manovra non sarà depressiva e che, per cominciare, non si toccheranno le pensioni, capitolo che nello schema originario del commissario Cottarelli avrebbe dovuto portare in dote un bel gruzzolo di 2,5 miliardi di risparmi nel 2015, di cui un miliardo di contributo straordinario.
Per contro sembra ormai certo, dopo le affermazioni del ministro alla Funzione pubblica, Marianna Madia, sul blocco degli stipendi nel pubblico impiego, che da questo comparto della spesa verranno risparmi per 2,1 miliardi. Resta da capire invece se reggerà l’impegno preso dal premier di non intervenire sulla Sanità, nel senso di consentire al comparto di usare i tagli effettuati per realizzare investimenti nello stesso settore. Oppure che ne sarà della Difesa, dove Cottarelli aveva contabilizzato eccessi di spesa rispetto al benchmark europeo di 3,2 miliardi, ipotizzando quella razionalizzazione dei cinque corpi di sicurezza di cui ora si sta discutendo, e che sono stati compresi nella delega della Pubblica amministrazione.
Un conto approssimativo del risultato che il premier potrebbe portare a casa, comprensivo del blocco agli stipendi, si aggirerebbe sui 10-12 miliardi. Mancherebbero dunque 8-10 miliardi ai 20 promessi. E qui subentra quello che al ministero dell’Economia chiamano un «cambio di approccio rispetto a Cottarelli»: una revisione della spesa «bottom up» anziché «top down », cioè dal basso verso l’alto anziché il contrario. Forse rubando un po’ di creatività all’ex ministro Giulio Tremonti, si potrebbe chiamarla «cartolarizzazione delle riforme», più semplicemente si tratta di monetizzare gli effetti di leggi già varate, in base al loro grado di attuazione. Lo ha fatto capire il viceministro Enrico Morando portando ad esempio il decreto sugli 80 euro che conterrebbe molte norme di risparmio non cifrate, quando furono emesse, perché ancora non realizzate. Certo, occorrerà che per farne derivare risparmi visibili si sia in grado di dimostrare gli effetti concreti di quelle norme. Non proprio un’operazione semplice, ma la strada della spending creativa e della misurabilità delle riforme, di cui tanto ha parlato l’economista dell’Ocse Padoan, prima di diventare ministro, appare tracciata.
Sembra lontana l’epoca in cui lo stesso Renzi elencava i tagli possibili per aggregati tradizionali, ad esempio «costi della politica», oppure «auto blu». A proposito, ieri il Formez, su incarico del ministero della Funzione pubblica, ha aggiornato i dati sulle flotte pubbliche, che sono scese da 8.619 vetture a 5.768, con un taglio del 33% nell’arco di circa due anni e mezzo.
A. Bac.
ANDREA DUCCI SUL CDE
ROMA — Lo Sblocca Italia è pronto. Il decreto legge, approvato dal Consiglio dei ministri il 29 agosto, negli ultimi dieci giorni è stato sottoposto a un intenso lavoro di limatura. Tanto che, ancora alla vigilia dello scorso fine settimana, Antonella Manzione, capo dell’Ufficio legislativo di Palazzo Chigi, ha scritto ai ministeri, coinvolti nella stesura del provvedimento, per ottenere le eventuali osservazioni e modifiche da inserire nel provvedimento. Un ultimo passaggio, insomma, in vista dell’invio del decreto al Quirinale.
Al di là delle procedure, resta che l’ultimo testo è assai più snello della bozza iniziale (da oltre 90 articoli si è passati a 44). Sebbene alleggerito e rimodulato, il decreto prevede tuttora un pacchetto di misure per la casa. Una delle norme principali ha, tra l’altro, il pregio di non richiedere coperture economiche. Si tratta della possibilità di avviare i lavori di ristrutturazione con una semplice comunicazione, anziché con un’autorizzazione. Per incentivare gli investimenti nel settore immobiliare è previsto uno sconto fiscale (il costo di questa misura sfiora i 650 milioni di euro) per chi acquista una casa nuova o interamente ristrutturata. In pratica, un beneficio pari al 20% del valore dell’immobile (da dedurre dall’Irpef) nel limite di spesa di 300 mila euro. Il tutto a condizione che l’immobile venga affittato a canone concordato per un periodo di almeno otto anni. Dalla versione definitiva del decreto sono, invece, uscite le agevolazioni fiscali riservate ai lavori di ristrutturazioni e agli interventi di riqualificazione energetica degli edifici (i cosiddetti ecobonus). La proroga di questi incentivi verrà affrontata nella legge di Stabilità.
Nel frattempo il decreto introduce altre forme di agevolazioni per progetti di riqualificazione di spazi urbani e aree pubbliche. I Comuni possono, per esempio, accordare uno sconto della Tasi (tassa servizi indivisibili) a un gruppo di cittadini o a un’associazione di commercianti, laddove questi ultimi intervengano nella manutenzione o la riqualificazione di un giardino, di una strada, di un arredo pubblico e così via.
Uno dei capitoli rivendicati da Palazzo Chigi è relativo ai poteri sostitutivi del premier nei confronti delle Regioni inadempienti o in ritardo nell’avviare e completare le opere finanziate con fondi Ue. La norma stabilisce che il presidente del Consiglio eserciti poteri ispettivi e di monitoraggio, accertando il rispetto degli obiettivi e della tempistica dei cantieri. Se non tutto fila come previsto, il capo del governo può intervenire nei confronti delle amministrazioni pubbliche, togliendo loro il finanziamento e destinando i soldi altrove. La logica, del resto, è quella che alimenta per 840 milioni di euro il Fondo revoche, ossia una delle gambe su cui si reggono le misure sblocca-cantieri del decreto. In totale il provvedimento mette a disposizione 3,89 miliardi per fare ripartire i lavori pubblici. Oltre ai soldi sottratti ai progetti non più meritevoli, ci sono 3 miliardi di euro garantiti dal Fondo di coesione europeo, relativo al programma pluriennale 2014-2020. Nella lunga lista dei cantieri dello Sblocca-Italia tra le precedenze figurano il passante ferroviario di Torino, la terza corsia Trieste-Venezia, la linea C della metro a Roma.
Il testo definitivo del decreto stabilisce inoltre quante risorse destinare alle opere e agli interventi segnalati dai sindaci alla Presidenza del Consiglio. Nell’ultima versione, su precisa indicazione del ministero dell’Economia, i fondi da riservare ai Comuni sono passati da 360 a 250 milioni di euro.
Tra le misure urgenti in favore delle imprese ne è stata ripescata una che in origine faceva parte del decreto competitività. Si tratta dei condhotel , quelle strutture alberghiere cioè che uniscono al servizio tradizionale l’attività di hotellerie in unità abitative a destinazione residenziale. La novità per i proprietari di alberghi risiede, soprattutto, nel vantaggio di rimuovere il vincolo della destinazione alberghiera, trasformando le camere in abitazioni da vendere (continuando a fornire i servivi dell’albergo) sul mercato immobiliare. L’unico vincolo stabilisce che le unità abitative non superino il 40% della superficie complessiva dell’hotel.
Andrea Ducci
repubblica
roberto petrini
Tagli del 3% ai ministeri E Cottarelli prepara le valige via dopo la legge di Stabilità
Vertice a palazzo Chigi sulla Spending review Cgil in piazza, Fiom annuncia lo sciopero contro il governo
ROBERTO PETRINI
ROMA .
Un sacrificio del 3% del budget, non lineare: alcuni potranno dare di più, altri di meno. Dipenderà dalle capacità di eliminare gli sprechi e di mettere in atto la fatidica spending review. In vista del vertice, previsto per domani, tra Renzi e la schiera dei ministri di spesa, ieri il titolare dell’Economia Padoan, il ministro delle Riforme, Maria Elena Elena Boschi, e il consigliere economico Yoram Gutgeld hanno messo sul tavolo una serie di proposte tecniche. Ad illustrare le cifre Carlo Cottarelli: il commissario alla spending review, in «frizione» con il governo dopo le sue dichiarazioni contro gli sforamenti della spesa pubblica del 31 luglio scorso. Dopo le ripetute voci di abbandono e di ritorno all’Fmi del tecnico del Tesoro, “Mr.Forbici”, a quanto si apprende, resterà al suo posto solo fino alla legge di Stabilità.
Il percorso, messo a punto dalla riunione di ieri, dovrà essere compiuto entro tre settimane: il primo ottobre sarà presentata la nota di aggiornamento al Def con il nuovo quadro economico e il 15 ottobre la legge di Stabilità. Durante questo periodo le acque saranno agitate. Susanna Camusso (Cgil) annuncia una manifestazione per il lavoro entro i primi 10 giorni di ottobre. E lo stesso Landini – spesso interlocutore di Renzi, che ha appena incontrato – mobiliterà le tute blu della Fiom il 25 ottobre a Roma, proponendo anche 8 ore di sciopero.
La linea di lavoro, che vuole seguire Renzi, è quella di tagli del 3%: poiché la spesa pubblica, al netto degli interessi, è circa di 700 miliardi, si tratta dunque di trovare 20 miliardi. Il compito graverà sui ministri di spesa: saranno richiesti risparmi al ministro della Sanità, Lorenzin, a quello del Lavoro, Poletti, a quello dello Sviluppo, Guidi a quello degli Interni, Alfano (il quale, però, è ottimista: «Ci sono le condizioni per lo sblocco degli stipendi delle forze di Polizia purché i sindacati abbassino i toni che hanno il sapore della minaccia ») La lista degli impegni resta gravosa. Da trovare ci sono 7-10 miliardi per il rinnovo del bonus Irpef da 80 euro per il 2015; 4 miliardi di spese indifferibili (Cig in deroga, 5 per mille, missioni militari ed altro); 4 miliardi di tagli alle spese postati sul 2015 dal governo Letta, pena l’entrata in funzione della clausola di salvaguardia con relativo taglio lineare delle agevolazioni fiscali. Infine 2-3 miliardi dovranno servire per proseguire nella correzione del deficit.
Il quadro della crescita intanto peggiora: dopo le docce fredde delle ultime settimane, per quest’anno è già assodato un Pil leggermente sotto lo zero, cioè in recessione, e soprattutto per il prossimo non si dovrebbe arrivare sopra l’1, nonostante le stime del governo siano ancora all’1,3%. Significa meno entrate fiscali e dunque la necessità di trovare maggiori risorse. Non solo ombre: ci sono almeno un paio di elementi che possono contribuire ad alleggerire la scure del governo e, finché rimarrà in carica, di Cottarelli. Il primo e più importante aspetto confortante è la riduzione dei tassi dopo le mosse della Bce: lo spread è ormai ben sotto quota 150 e anche i tassi a lungo sul Btp decennale oscillano intorno al 2%. La conseguente minor spesa per interessi sarebbe di circa 3 miliardi. L’altra mini-boccata di ossigeno è la rivalutazione del Pil, secondo le nuove norme Eurostat: non sarà molto, ma contribuirà ad una piccola limatura a deficit e debito. Infine la variabile cruciale, ben presente sul tavolo anche ieri: sarà l’obiettivo di deficit-Pil che si porrà per il prossimo anno. Il Def fissava l’1,8% per il 2015, ma già prima dell’estate Renzi aveva annunciato di voler portare il livello al 2,3%: dunque più margini di manovra. Non si andrà comunque oltre il 3%, anche secondo le più recenti stime dei centri di ricerca. L’Italia conta sempre sulla flessibilità in cambio di riforme. Ma anche sul piano europeo l’Italia fa pressing: ieri il sottosegretario Gozi ha proposto di rivedere gli obiettivi di deficit per tutta Eurolandia in ragione di “circostanze eccezionali” come la crisi Ucraina e le svalutazioni dei Bric.
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