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 2014  settembre 06 Sabato calendario

SOPHIA LOREN: «HO LA FRENESIA DI VIVERE»

«Quando racconti la tua vita vorresti dire tutto: diventa un’ossessione. Sono della Vergine, con il mio perfezionismo annoio pure me stessa. Non è stato semplice».
E come avrebbe potuto? Qui si tratta dell’autobiografia di Sophia Loren, l’unica Diva italiana, e di 80 anni (li compie il 20 settembre) straordinari. Ieri, oggi, domani (Rizzoli) parte come un film neorealista e prosegue come un kolossal sul sogno americano. Sempre in acrobatico equilibrio tra la certezza che «niente accade se non si ha il coraggio di fantasticare» e la convinzione che «occorre rispettare i propri limiti». E con una “condanna”: non accontentarsi mai. Ogni gradino che sali è solo un passo che ti avvicina a quello successivo.

Il primo tempo si apre nel 1934, a Roma: Sofia (con la “effe”, diventerà “ph” nel 1952 accompagnandosi al cognome d’arte) nasce in clinica nel reparto per ragazze madri. Torna poco dopo a Pozzuoli: il padre Riccardo Scicolone - pur avendola riconosciuta - non intende metter su famiglia. Cresce chiamando i nonni “papà e mammà” e la madre “mammina”.
«Pregavo Dio che non venisse a prendermi a scuola, mi vergognavo: la sua bellezza sopra le righe mi metteva in imbarazzo. Troppo bionda, alta e, soprattutto, non sposata. Io invece ero scura scura e secca secca: mi chiamavano Stuzzicadenti».
Quando ha sei anni, la guerra: paura, bombe, fame, freddo. Nel 1949, cambio di scena. Vince un concorso di bellezza, inizia un corso di recitazione («Ci insegnavano a “fare le facce”»), va a Roma per i provini di Quo vadis, partecipa a Miss Italia.
«Ero lì per riscattare me e i miei, per regalare a mammina quel che non aveva potuto realizzare in prima persona»: questo le è chiaro, senza aver scomodato Freud o Jung.
Alberto Moravia l’aveva capita già nel ’60, quando scrisse di lei: “Il successo è un surrogato per la normalità irraggiungibile”?
E come no? La diversità della mia famiglia, che mi ha riempito di vergogna, mi ha al tempo stesso spinto ad affermarmi, a dimostrare chi sono. Moravia era l’autore di La ciociara, e io un po’ ammiro, un po’ temo gli intellettuali: ho sempre paura di sembrare stupida, so’ fatta così. Perché non sono andata all’università, non mi hanno dato neppure il diploma magistrale visto che mia madre mi ha tirato fuori di corsa dalla scuola per portarmi a Roma. Ho dei complessi... Ora (ammetto) meno: quando nella vita riesci, capisci che meriti quel che hai. La fortuna serve, però - se la lasci passare senza accorgertene - non combini niente. Che peccato, comunque, non aver studiato: quanto mi piaceva la filosofia! Platone, Socrate... Mi sono fermata a Kant, e ancora me lo ricordo.

Un caso che Kant sia, tra l’altro, il filosofo dell’importanza dell’etica: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”?
Per me comportarsi bene è assolutamente normale, naturale: quando nasci devi impararlo. E poi io sono religiosa, prego molto. Adoro questo Papa.

Non sarà stato facile tenere i piedi per terra quando, nel 1957, arrivò a Hollywood.
Dopo la guerra, al cinema non mi ero persa un film americano: vedere in carne e ossa quegli attori (Tyrone Power, Rita Hayworth, Judy Garland) era un sogno.

Appunto: trovandosi in un sogno, si può perdere la bussola.
Vabbe’, mica so’ scema! Ho voglia di stare bene, di apprezzare gli altri. Di apprezzare me stessa: sono una persona positiva e ho sempre avuto una calamita interiore nell’attirare (e riconoscere) le persone più giuste, più adatte a me.

Come Vittorio De Sica e Marcello Mastroianni.
Senza Vittorio non avrei trovato la mia vera voce, non sarei diventata quella che sono. La nostra affinità derivava anche dall’essere napoletani: si piange, si ride, si cambia umore con facilità, si affrontano le cose con ironia. Inaugurammo le nostre collaborazioni nel 1954 con L’oro di Napoli. La camminata sfrontata della “Pizzaiola” mi rivelò a me stessa, non solo al pubblico: per la prima volta in assoluto ho avvertito che il mondo mi era amico.
Con Marcello ci conoscemmo lo stesso anno, sul set di Peccato che sia una canaglia: condividevamo la riservatezza, l’ottimismo, una certa gioia di vivere e la consapevolezza della nostra fortuna (guarda la gallery, ndr). L’alchimia era così palpabile che si chiedevano se ci fosse qualcosa di più tra noi due. La risposta è: no.

Marlon Brando invece - si deduce dal libro - non era affatto “adatto”.
Ritardatario (un difetto che non sopporto), incapace di disciplina: durante le riprese di La contessa di Hong Kong decise di mangiare esclusivamente gelati e ingrassò al punto da compromettere il suo ruolo. Un giorno allungò le mani. Lo guardai e, calma calma, gli sibilai: “Non ti permettere. Non conosci le mie reazioni: devi avere paura”.

Oltre alla avances di Brando, ha rifiutato la proposta di matrimonio di Cary Grant.
Non nego che il suo corteggiamento mi abbia mandato in confusione, però una famiglia intendevo crearla con Carlo (il produttore Carlo Ponti, ndr), per quanto la nostra storia fosse ancora clandestina. Ho deciso per la cosa giusta, non c’è dubbio alcuno.

Cosa rappresentava Ponti?
Sin dal primo incontro, nel 1951 (io non avevo 17 anni, lui 39) mi ha dimostrato di essere un uomo serio. È stato il primo a credere in me, mi rendeva sicura: se andavamo al ristorante e magari mi riprendeva perché mangiavo l’omelette con il coltello, mi vergognavo (e in quel posto non ci rimettevo più piede), però sapevo che agiva nel mio interesse. Essendo più grande rappresentava - oltre all’amore - quel padre che non avevo avuto. Mi ha indirizzata tantissimo, mi ha spinto a seguire corsi di dizione, a imparare l’inglese: insieme abbiamo realizzato cose belle.

Vincere un Oscar, per esempio, con La ciociara. Nell’autobiografia racconta che, per smorzare l’ansia in attesa del verdetto, si mise a prepare il sugo. La cucina per lei sembra quasi un esercizio zen.
Ma quando mai? Ho sofferto tanto la fame, per me le cose positive passano anche attraverso la tavola, il mangiare.

L’amarezza maggiore?
Verso i 30 anni: il desiderio di maternità era diventato un assillo e per due volte non avevo portato a termine la gravidanza. Il ginecologo sentenziò: “Ha bei fianchi, ma non avrà mai un figlio”.

Un commento da denuncia. Poi i figli li ha avuti, grazie a un medico di Ginevra. Come mai è rimasta in clinica ben 50 giorni dopo la nascita di Carlo?
Avevo paura che il vento facesse venire la tosse al bambino... In realtà, c’era il timore di non cavarmela da sola come mamma. Per fortuna, ci pensò il dottore: gli serviva la stanza, così fui costretta a uscire.

Di “ieri” abbiamo raccontato parecchio. Passiamo all’oggi e al domani.
Sul domani non mi pronuncio per scaramanzia, da brava napoletana. L’oggi è esattamente quello che ho desiderato: sento ancora la stessa frenesia di vivere. Possiedo il Dna giusto, sono in forma (facimm’ ’e cuorna): dedico un quarto d’ora al giorno all’esercizio, sto attenta al cibo e al sonno. Per quanto i pensieri, a volte, mi tengano sveglia.

Quali pensieri?
Maronna quante cose vuole sapere... Quel che aspetta i miei figli e i miei quattro nipotini in questo mondo pieno di orrore.


C’è qualcosa che non ci siamo dette?
Parliamo da un sacco, ho contato i minuti.


Precisa davvero, eh.
Bisogna. La vita, di per sé, è sbaraglio.