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 2014  settembre 06 Sabato calendario

TASSE E MINISTERI: COSI’ FUNZIONA LO STATO ISLAMICO

È la più straordinaria trasformazione degli ultimi anni. In meno di due mesi l’Isis, fino allo scorso giugno soltanto una compagine di spietati terroristi, è riuscita a tramutarsi in uno Stato (semi) compiuto. Da quando cioè il leader Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato la nascita del Califfato, l’internazionale jihadista ha saputo sviluppare le funzioni tipiche di un’entità statuale. Dall’amministrazione della giustizia, all’erogazione di acqua ed elettricità, fino alla riscossione delle tasse.
Non solo. Dotato di un direttorio alquanto efficace, lo Stato islamico riesce oggi ad auto-finanziarsi e a imporre la sua legge sui territori conquistati. Un prodigio assoluto, rimasto un sogno per Osama bin Laden e gli accoliti qaedisti. Al punto che, se non fosse per l’applicazione ossessiva della sharia, destinata nel lungo periodo a incidere sul consenso interno, e la tendenza all’espansione territoriale che rischia di logorare le truppe, il Califfato siro-iracheno potrebbe costituire un modello per molti Stati falliti del globo.
All’interno del jihadistan vige una divisione di compiti e poteri di chiara ispirazione occidentale. Come previsto dalla scienza politica di matrice liberale, il Califfo al Baghdadi è affiancato da un esecutivo, suddiviso in otto dipartimenti, che amministra gli affari interni ed esteri. Nello specifico sono stati creati dicasteri per la finanza, gli armamenti, le operazioni militari, le questioni locali, l’imposizione della sharia, il reclutamento di nuove leve, la comunicazione. A guidarli sono spesso cittadini iracheni che hanno alle spalle un passato da funzionari baathisti o da alti ufficiali nell’esercito di Saddam, finiti in carcere o caduti in disgrazia in seguito all’occupazione americana.
Esiste inoltre un gabinetto di guerra composto da tre fidatissimi consiglieri. Molti dei collaboratori al Baghdadi li ha conosciuti negli anni di prigionia trascorsi a Camp Bucca, il più grande centro di detenzione statunitense in territorio iracheno. Si tratta di dirigenti capaci e con notevole esperienza di governo, di formazione laico-socialista, che hanno sposato la causa jihadista più per opportunismo e per spirito di sopravvivenza che per fervore religioso.
Stando alle stime dell’intelligence americana, dei 25 vice che assistono al-Baghdadi nella gestione ordinaria della macchina governativa, ben otto sarebbero ex fedelissimi di Saddam. Tra questi gli ex vice colonelli dell’esercito baathista Fadel al Hayali, attuale sovraintendente per i territori iracheni, e Adnan al Sweidawi, capo del Consiglio militare. Tuttavia, in linea con la vocazione internazionale dello Stato islamico, ministri e condottieri provengono dall’intero Medio Oriente: su tutti il cittadino striano Abu Mohammed al Adnani, portavoce personale di al Baghdadi; il georgiano di etnia cecena Tarkhan Batirashvili, conosciuto anche come Ornar al Shishani, probabilmente il responsabile delle operazioni militari; o come l’australiano Mohamed Elomar, molto attivo sui social network e tra i più temuti comandanti dell’organizzazione.
Il territorio, a cavallo tra Siria e Iraq, lungo l’artificiale confine disegnato un secolo fa dai diplomatici europei Francois-Georges Picot e Mark Sykes, è stato organizzato secondo un’impostazione di tipo federale: diviso in 12 province semi-autonome e guidate da potenti plenipotenziari detti Vali, come accadeva ai tempi del Califfato medievale e dell’impero ottomano. A loro è deputato il mantenimento dell’ordine e la gestione del fisco. Proprio la capacità di autofinanziarsi è caratteristica essenziale di uno Stato funzionante; Inizialmente l’Isis, quando era semplicemente uno dei gruppi jihadisti impegnati nel conflitto siriano, dipendeva dal sostegno finanziario di Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e delle altre monarchie del Golfo. In particolare la Casa dei Saud, impegnata in una guerra per procura contro l’acerrimo rivale iraniano, tra il 2011 e la primavera del 2014 ha lautamente sovvenzionato i miliziani che miravano a rovesciare il presidente siriano Bashar al Assad, storico alleato di Teheran.
Col tempo però, grazie ai rapimenti, alla conquista di pozzi di petrolio e alle razzie ai danni di banche e uffici governativi, l’Isis ha accumulato considerevoli riserve finanziarie che da alcuni mesi gli consentono di muoversi autonomamente, proprio mentre l’impostazione ideologica di al Baghdadi entrava in conflitto con quella della corona saudita. Negli anni soprattutto i governi europei hanno pagato esorbitanti riscatti per ottenere la liberazione di loro cittadini finiti nelle mani dei guerriglieri. Non esistono dati ufficiali, ma la richiesta di 100 milioni di euro inizialmente avanzata alla famiglia del giornalista americano James Foley, ancorché volutamente esosa, lascia intuire quanto sia redditizio il business dei sequestri.
Altra voce rilevante del bilancio jihadista è la rendita petrolifera. Oggi il Califfato possiede il 70% dei giacimenti siriani, tra questi il pozzo di al Omar, il più grande del Paese, e sette pozzi e due raffinerie iracheni, che normalmente producono più di 500 mila barili di greggio al giorno. Si calcola che soltanto grazie alla vendita di petrolio lo Stato islamico incassi quotidianamente circa due milioni di dollari. Il greggio viene raffinato in loco, quindi trasportato in Giordania, in Iran, in Turchia, e venduto sul mercato nero tra i 20 e i 30 dollari al barile, assai meno degli oltre 100 dollari pagati dai compratori legali. Peraltro Daesh, come la compagine è indicata nell’acronimo arabo, controlla 260 chilometri della pipeline che da Kirkuk, nell’Iraq settentrionale, conduce al porto turco di Ceyhan e proprio la compiacenza del governo di Ankara consente al greggio jihadista di transitare verso Nord. Tra i principali clienti vi sono cittadini e commercianti, nonché il regime di Damasco, interessato a rafforzare l’Isis e a screditare i cosiddetti ribelli moderati che godono del sostegno occidentale.
Ai soldi del petrolio si aggiungono quelli confiscati a banche e istituti di credito che hanno sede nelle città espugnate, come accaduto a Mosul dove l’assalto alla locale Banca Centrale ha fruttato ai miliziani oltre 300 milioni di euro. Infine proventi considerevoli giungono dalla riscossione delle tasse. Come uno Stato convenzionale, il Califfato non vive solo di estorsioni e in questa fase riesce a ottenere il pagamento dei tributi fornendo servizi e agevolazioni ai cittadini. A Raqqa per esempio, capitale de facto del jihadistan, ogni due mesi i commercianti sborsano circa 20 euro in cambio di elettricità, acqua corrente e sicurezza. Una somma molto inferiore alle tangenti corrisposte in passato al regime di Assad. Le principali compagnie di telecomunicazioni versano invece cifre consistenti per usufruire dei ripetitori posti nelle zone occupate dai miliziani, mentre i pochi cristiani rimasti pagano la jizya di ottomana memoria (a Mosul la somma richiesta è 250 dollari). Tutti i contribuenti in regola con l’erario ricevono tagliandi su cui è impresso il logo dell’Isis.
Lo Stato islamico dispone dunque di notevoli risorse finanziarie. In base alle elaborazioni dell’intelligence occidentale, i jihadisti avrebbero in cassa almeno due miliardi di dollari in contanti, nettamente più di quanto dispongano Hezbollah o i Talebani. I fondi servono innanzitutto a stipendiare le circa 15 mila unità che compongono l’esercito, in media 600 dollari al mese per ogni guerrigliero, giacché il Califfato è l’unica formazione jihadista composta interamente da mercenari.
Inoltre i soldi vengono impiegati per aumentare il consenso tra la popolazione sottomessa, specie attraverso la concessione di sussidi per l’acquisto di pane, acqua e carburante. Le elargizioni sembrano funzionare. I blackout idro-elettrici, specie nel Nord della Siria, durano anche quindici ore al giorno, ma i prezzi dei generi alimentari si mantengono bassi e i rifornimenti arrivano con regolarità.
Ciò che può seriamente compromettere la stabilità dello Stato islamico, oltre al rischio di estendere oltremisura i suoi possedimenti, è l’intransigente e ossessiva applicazione della sharia a ogni aspetto della vita quotidiana. Nelle città conquistate è stato bandito il fumo e l’alcool, con relativa chiusura di caffè e bar; le donne sono state obbligate a indossare il velo integrale; i parchi in cui ragazzi e ragazze interagivano liberamente sono sta-ti interdetti al pubblico; i ladri vengono puniti in piazza con l’amputazione degli arti. Per ora la pace relativa, dopo anni di guerra, e la sicurezza garantite sono valse ai miliziani l’appoggio perlomeno passivo di parte della cittadinanza ma nel medio periodo il fondamentalismo religioso rischia di alienare una popolazione, tanto quella irachena quanto quella siriana, proverbialmente laica. Perché, indipendentemente dalla sua natura autoritaria o democratica, è sempre il mantenimento del consenso a determinare il destino di un soggetto statale. E l’Isis, l’organizzazione terroristica che divenne Califfato, non fa eccezione.