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 2014  settembre 09 Martedì calendario

GRAN BRETAGNA? VERSO UN MONDO SENZA GRAN BRETAGNA? VERSO UN MONDO SENZA S [3

pezzi] –

Siamo di fronte a un caso glorioso di Cool Britannia. Forse, l’ultimo della storia, se il referendum del 18 settembre in Scozia stabilirà che il terzo settentrionale della Bella Isola ha scelto l’indipendenza dal Regno Unito. Non la Cool Britannia di Tony Blair, però: innovativa, hi-tech, di moda, giovane ma comunque effimera. No, assistiamo proprio allo spettacolo della freddezza tollerante per la quale generazioni di cittadini del mondo — classi dirigenti e popolo — hanno per decenni, secoli, ammirato e invidiato il carattere, l’understatement, lo spirito sportivo dei britannici. Un caso così glorioso da fare propendere chi è nato a Sud della Manica per il No senza se e senza ma alla spaccatura. Ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni è una ragione forte per fare pressioni sugli scozzesi affinché resistano alla bella sirena dell’indipendenza. Un Paese come la Gran Bretagna che conduce in modo così aperto e democratico una discussione e un voto sulla sua possibile fine, sulla frantumazione di un’unione che dura da 307 anni non deve essere fatto a pezzi. Non tanto perché non lo meriti: il dominio di Londra sulle periferie del Regno può essere più che fastidioso, soffocante. Ma soprattutto perché è, come è stato per secoli, un esempio per tutti di cosa sia il pragmatico adattamento alla modernità di uno Stato democratico sin nel profondo delle ossa.
In giorni in cui la dottrina Putin fa passi avanti e risolve i dubbi della Crimea e forse dell’Ucraina armi in pugno, la Gran Bretagna dimostra di essere grande per la civiltà con cui sta affrontando il rischio storico di diventare più piccola. È una questione rilevante non solo per scozzesi, inglesi, gallesi e nordirlandesi. Per tutti: come sarebbe il mondo con una Gran Bretagna rimpicciolita, umiliata nel corpo e nello spirito, fallita dopo avere illuminato la storia di cinque continenti?
Una Scozia indipendente non è priva di fascino. Ancora dopo tre secoli di unione nel Regno, mantiene caratteri nazionali autonomi fortissimi. Sul piano storico è una delle patrie dell’Illuminismo, del liberalismo, dell’idea moderna di economia; ed è parte essenziale della gloria militare britannica. In finanza è uno dei grandi centri europei di gestione del denaro. E una certa diaspora scozzese ha arricchito pezzi interi di mondo. Ha tutte le caratteristiche per continuare ad avere una voce tutta sua. Ma proprio perché in 307 anni di unione con l’Inghilterra le qualità specifiche non le ha perdute, anzi le ha messe nell’arricchimento di un progetto più grande, sarebbe una perdita per tutti se votasse Sì.
La rottura del Regno Unito indebolirebbe in misura forse irreparabile il modello di istituzioni condivise e di certezza del diritto che la Gran Bretagna ha irradiato nel mondo, compresa buona parte delle sue ex colonie; rimpicciolirebbe quel monumento ispiratore che è Westminster, «madre di tutti i parlamenti»; ridimensionerebbe secoli di cultura e stile britannici; ridicolizzerebbe l’idea che nella vita come nello sport, grande invenzione britannica, l’importante è gareggiare con fairplay e stringere la mano a chi vince; darebbe fiato alle forze, oggi aggressive, che predicano la debolezza se non la stupidità dei sistemi aperti. Senza un Regno Unito il mondo sarebbe peggiore, molto peggiore.
Popolo pragmatico, come i vicini meridionali inglesi, gli scozzesi decideranno guardando più al concreto che alla storia. Il petrolio del Mare del Nord da non dividere con nessuno. Uno Stato sociale forse più generoso. Un’autonomia totale (o quasi) da Londra. Contrapposti al rischio di restare per anni fuori dalla Ue. Al dovere usare ancora la sterlina ma una sterlina governata dagli altri, non più interessati all’economia di Glasgow e delle Ebridi. Alla migrazione probabile di imprese e banche a sud del Vallo di Adriano. Libera scelta, garantita dalla freddezza democratica di Londra. L’indipendenza, chissà, farebbe forse male agli scozzesi ma certamente colpirebbe un Regno che è stato il grande impero e ancora oggi è a modo suo una potenza, almeno in termini di soft-power, di influenza sull’America, sull’Asia, sull’Africa, sull’Australia, persino a sud della nebbia della Manica.
Ieri, infatti, quando si è saputo che i sondaggi danno per la prima volta il Sì all’indipendenza in testa, la sterlina si è indebolita (di oltre l’1%), la Borsa di Londra è scivolata (0,3%) e sui mercati globali si è iniziato a fare i conti delle conseguenze di una sconfitta degli unionisti e del caos che la rottura secolare provocherebbe.
La finanza e le economie, comunque, si adeguerebbero alla vittoria del leader indipendentista Alex Salmond. Sono i segni lunghi che rimarrebbero finito il referendum, come i denti del gatto del Cheshire di Alice: nel sorriso dei Putin e di tutti gli illiberali gongolanti per l’autogol della democrazia, certe volte antipatica ma ispiratrice e dunque per loro minacciosa, della Gran Bretagna. L’umiliazione di Londra renderebbe l’Occidente e il mondo più poveri. La vecchia gloria avrebbe ancora parecchio da dire.

SUL REFERENDUM PLANA DA LONDRA L’ANNUNCIO DEL ROYAL BABY 2



Anche le congratulazioni per il nuovo royal baby si possono leggere in chiave referendum: il premier David Cameron in Parlamento si complimenta con i Duchi di Cambridge William e Kate «a nome dell’intera nazione», il leader indipendentista Alex Salmond manda i più calorosi auguri «da parte del popolo della Scozia». Maschio o femmina che sia, il quarto erede al trono britannico nascerà a primavera in un Paese forse molto diverso da quello dove è stato concepito circa tre mesi fa.
Il suo annunciato arrivo potrà contribuire all’esito del voto del 18 settembre? Soltanto i monarchici più sfegatati (o sul fronte opposto qualche teorico della cospirazione al largo delle isole Shetland) potrebbero sostenerlo. Ma in una corsa che è diventata improvvisamente all’ultimo voto, con la regina «inorridita» per la possibilità di una scissione e l’establishment politico paralizzato dagli ultimi sondaggi che danno il sì vincente, ogni «arma» è buona (anche un pannolino con le insegne reali) per i sostenitori dell’Unione e della continuità. Non sarà un caso che il conte Spencer, fratello di Lady Di e zio del principe William due volte papà, parlando alla Bbc ha commentato che «in un periodo buio come quello che stiamo vivendo, la notizia di un bebè reale è quella che ci vuole, rende la nazione più felice e tanto basta».
Lanciata su Twitter, la notizia è stata confermata dal principe William: «Siamo emozionatissimi», ha detto Wills incravattato. Kate non ha potuto accompagnarlo, per i disturbi di inizio gravidanza di cui aveva già sofferto per il primo nato George (un anno lo scorso luglio). Hanno chiesto al duca come stava la duchessa, ha risposto: «Si sente ok», ma adesso è «meglio che vada a casa a prendermi cura di lei». Fortuna che zio Harry, retrocesso al quinto gradino della scala al trono, ci ha messo un po’ di ironia: «Non vedo l’ora di vedere mio fratello soffrire ancora». Ma sono altre le preoccupazione della famiglia reale, che pure in un comunicato ufficiale ha salutato con gioia l’annuncio. Lo stesso William ha quasi minimizzato la notizia domestica: «È importante che tutti noi ci focalizziamo sulle notizie importanti, gli eventi internazionali e nazionali che stiamo attraversando. È su queste cose che i miei pensieri sono concentrati in questo momento».
La seconda paternità può attendere. Anche se non lo dice apertamente William, futuro re e secondo al trono di nonna Elisabetta dopo l’eterno erede Carlo, fa capire che sta pensando alla Scozia. Ufficialmente «neutrale», non è un mistero che la famiglia reale faccia il tifo per l’Unione. Se al referendum non passa l’indipendenza, il pupo avrà un nome molto molto scozzese? Si accendono i ceri, sono aperte le scommesse.
Michele Farina


L’IMPERO COSTRUITO DAI SOLDATI DELLE BRUGHIERE –

«Novantatreesimo, novantatreesimo, dannazione a voi e alla vostra furia», urlò sir Colin Campbell ai suoi uomini in giubba rossa e gonnellino scozzese che, in preda alla febbre dello scontro, stavano per lanciarsi all’inseguimento di un nemico battuto ma ancora forte. Cinquecento ossessi del 93° fanteria che nel 1854 contribuirono a fermare, durante la guerra di Crimea, la spinta di migliaia di russi verso il porto di Balaklava. Fu così, nelle cronache dell’epoca pubblicate dal Times, che nacque la leggenda della thin red line, la «sottile linea rossa» inglese che blocca un nemico enormemente superiore di numero. Solo che gli uomini del 93° non erano inglesi ma scozzesi, del reggimento Sutherland Highlanders. Come scozzesi furono i protagonisti di altri innumerevoli fatti d’arme dell’esercito di Sua Maestà. Combattenti feroci e tenaci (i tedeschi durante la Grande guerra pare chiamassero i soldati in gonnellino Die damen aus der Hölle, «le signore infernali»), hanno partecipato a tutte le guerre made in Uk. Scozzese è stato il primo reggimento di fanteria regolare della storia britannica, i Royal Scots, reclutato nel 1633 da Carlo I. Scozzesi i battaglioni mandati in America durante la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) che strapparono il Canada ai francesi («Sono tosti, intrepidi, abituati a una vita dura e se muoiono non ne fanno una tragedia», disse il generale James Wolfe, l’eroe del Quebec). Scozzesi erano gli uomini del Black Watch che schiacciarono l’ammutinamento dei soldati indiani nel 1857. Insomma, buona parte dell’impero fu conquistato con il sangue di uomini nati a nord del vallo di Adriano: nella Prima guerra mondiale, ricorda lo storico Niall Ferguson, il 26,4% degli scozzesi mobilitati fu ucciso, contro l’11,8% di inglesi e irlandesi. Se vincerà il sì, tutto questo sarà consegnato definitivamente alla storia. Anche se, in base a un sondaggio pubblicato dal Daily Mail (schierato sul fronte del no), in caso di scissione molti highlander sceglierebbero di restare nell’esercito inglese: far parte di un piccolo esercito scozzese, ha detto uno di loro, sarebbe molto «noioso»
Paolo Rastelli