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 2014  settembre 09 Martedì calendario

MONETA, NATO, PETROLIO ECCO CHE SUCCEDE SE LA SCOZIA SE NE VA


God save the pound. La preghiera si è levata fin dall’alba tra i listini della City dopo la gelida doccia scozzese: i sondaggi danno una maggioranza seppur risicata (51 a 49) ai fedeli di Braveheart e di Sean Connery in vista del referendum del 18 settembre. La possibilità che gli scozzesi, 269 anni dopo la sconfitta dei seguaci di re Giacomo a Culloden, vogliano infrangere l’unità del Regno ha seminato non poca confusione nelle stanze dei bottoni della finanza britannica, che nel pomeriggio si è aggrappata anche alla notizia della gravidanza della principessa Kate, tanto per esorcizzare l’assedio delle cornamuse.
A pagare il prezzo più salato è stata la sterlina: ieri sera ci volevano 0,8017 pound per acquistare un euro, solo una settimana fa bastavano 79 centesimi, come a luglio, quando l’economia di Londra sembrava lanciata verso una robusta ripresa. Ma numeri ben diversi potrebbero saltar fuori tra una settimana, in caso di vittoria dei “sì” all’indipendenza: in quel caso, il calo della sterlina potrebbe essere almeno del 10%. E lo stesso vale anche per il debito pubblico della Corona: il gilt decennale sfiora il 2,50%, ben al di sopra del Btp italiano. In Borsa, infine, si respira aria di ribasso. Niente di drammatico per ora, un po’ perché la partita è ancora incerta. Molto perché nessuno ha ben capito che cosa potrebbe accadere nel caso che la maggioranza dei 4,2 milioni di scozzesi dai 16 anni in su che si sono iscritti alle liste elettorali (su 5 milioni circa di abitanti) decideranno per il sì dando vita ad una vera e propria rivoluzione: la Scozia rappresenta solo l’8% dei sudditi di sua Maestà britannica, ma occupa il 32% del territorio dell’isola.
Tanto per cominciare, non è affatto chiaro se la sterlina resterà a moneta sovrana ad Edimburgo e Glasgow, le città più importanti di Scozia. È qul che chiedono gli indipendentisti, ma la Bank of England e il governo di Londra non si sono ancora pronunciati. In caso di rifiuto, fanno sapere i seguaci del premier Alex Salmond (economista del settore petrolifero), la nuova Scozia recapiterà la sua quota di debito pubblico a Londra.
Non è il solo motivo di incertezza con cui fanno i conti gli analisti della City. Molte banche di Edimburgo stanno predisponendo l’invio dei depositi verso Londra lasciando a nord solo i debiti. Si spiega così il nervosismo del listino bancario alla City: la Royal Bank of Scotland ha perso più del 3% così come Standard Life o il gruppo Lloyd Banking group che ieri ha cercato di tranquillizzare i mercati annunciando di aver messo a punto un eventuale piano per gestire l’eventuale separazione che sarebbe comunque preceduta da una fase di preparazione alla nuova realtà.
Per carità, non sono solo i listini di Borsa ad impensierire gli osservatori inglsi e non. Che accadrà del seggio britannico permanente all’Onu, si domandava ieri il Financial Times. Sarà difficile mantenere una postazione così importante a fronte di Paesi come l’India (venti volte più popolate) o il Brasile (tre volte di più). Ancora più problematico l’eventuale futuro asetto della finanza nell’ambito della Nato. Di sicuro la Scozia indipendente non vuole ospitare la base di Farlane, sul Clyde, ove stazionano i quattro sottomarini atomici più i 200 Trident posseduti dalla Gran Bretagna. Per sostituire la base ci vorrebbero 5 miliari di sterline e dieci anni di lavoro.
Fin qui gli allarmi in arrivo dal fronte del no, peraltro sorpreso dall’avanzata delle smpatie per la Scozia indipendente, un po’ in tutti i ceti sociali. Alex Salmond promette ai suoi cittadini una ricetta economica basata sull’esempio dei fortunati vicini scandinavi, i norvegesi. Anche davanti ad Aberdeen,come sulle coste che fronteggiano Stavanher sorgono le piattaforme per estrarre petrolio e gas dal mare del Nord. Una ricchezza che, a detta degli scozzesi, è stata rapinata dagli inglesi che fin dai tempi della Thatcher hanno imposto gabelle come la poll tax prima in Scozia solo dopo a Londra. Un Paese con 5 milioni di abitanti, è la tesi degli indipendentisti, può sfruttare meglio degli altri le opportunità della new economy, finanziando il suo sviluppo grazie alle entrate petrolifere. Non è una tesi sbagliata, riconosce The Economist, ma non va dimenticato che il petrolio de mare del Nord, ahimè, va verso l’esaurimento. I ricavi ammonteranno a 3 miliardi annui fino al 2017, poi comincerà il declino. E dopo? Ce la farà l’esecutivo di Glasgow, alle prese con unn debito pubblico pro capite più alto del 15 per cento rispetto all’Inghilterra, a far fronte ai problemi vecchi e nuovi? La Scozia non si è ancora risollevata dalla crisi della cantieristica e dell’acciaio che ha lasciato strascichi nell’economia e forte risentimento nell’elettorato. C’è da chiedersi se l’indipendenza aiuterà ad affrontare e risolvere questi problemi. Di sicuro, la flemma (o la supponenza) con cui David Cameron (e l’alter ego laburista Gordon Brown) hanno snobbato il duello, ha finora favorito non di poco i fautori dell’indipendenza.