Giuseppe Videtti, la Repubblica 7/9/2014, 7 settembre 2014
JAMES FRANCO
ROMA
All’inizio il suo viso è un foglio bianco. Ci puoi scrivere quel che vuoi, lo hanno fatto grandi registi come Gus Van Sant, Sam Raimi e Danny Boyle. Poi la maschera dell’assenza, quella che De Niro e Al Pacino non si tolgono — almeno in pubblico — si anima. Gli occhi si stringono, sprigionano vitalità, sorridono indipendentemente dalle labbra; le mani (quelle degli attori, al contrario dei musicisti, sono spesso orrende: le sue, bellissime) descrivono situazioni, il corpo tozzo imprigionato nel chiodo si anima in una miriade di scatti impercettibili, uno per ogni storia. Dunque migliaia in pochi minuti, perché le sue imprese sono troppe per essere raccontate d’un fiato. Come attore, un’esagerazione di trionfi hollywoodiani; poi le ripetute fughe dal cinema, il ritorno sui banchi di scuola — prima studente poi professore — soap opera, istallazioni in prestigiose gallerie d’arte, produttore, regista di film, documentari e video musicali, un gruppo rock (Daddy) con un disco in uscita, scrittore di una mezza dozzina di romanzi e poesie, presenza costante e creativa sui social network che è la delizia di milioni di followers saggiamente ammoniti all’ingresso: «Sessisti, razzisti e omofobi: togliete il culo da qui!». Troppo per un trentaseienne con neanche quindici anni di carriera e un esordio benaugurante in un biopic su James Dean. Ma non è tutto. Da sette anni James Franco è l’uomo immagine di Gucci. Talmente devoto alla storica casa di moda da aver prodotto un intero film, The Director, su Frida Giannini, diretto dalla regista-complice Christina Voros, con la quale ha realizzato anche un documentario ben più controverso sull’impero del porno-fetish-sadomaso in Rete ( Kink). «Dopo anni di campagne pubblicitarie, ho pensato che sarebbe stato altrettanto interessante indagare l’universo di Gucci», racconta. «L’idea mi venne tre anni fa, quando ero in Italia per assistere a una versione restaurata de La dolce vita. Questo documentario ha rinsaldato il mio amore per il cinema italiano dal neorealismo alla dolce vita, ho rivisto 8½ proprio due giorni fa. L’uso del bianco e nero in The Director è chiaramente ispirato a Ladri di biciclette e Umberto D».
Ma non è tutto. Ora ha provato l’ebbrezza del teatro, e dopo centocinquanta repliche sold out di Uomini e topi ne è rimasto rapito. «È stata l’esperienza più esaltante della mia carriera», mormora, come se Broadway avesse all’improvviso cancellato il memorabile exploit in Milk accanto a Sean Penn, il Green Goblin di Spider Man, la nomination all’Oscar per 1-27 ore. «Era un desiderio che covavo da almeno vent’anni, un sogno segreto. Provavo una sorta di terrore reverenziale. Mi dicevo: per fare la stessa cosa ogni sera, per mesi, devi essere assolutamente perfetto. L’entusiasmo mi ha aiutato a superare il panico. Non vorrei sembrare arrogante, ma ormai mi sento abbastanza sicuro delle mie possibilità. Il modo migliore per combattere le incertezze è lavorare sodo. Disciplina». E sarebbe stato un anno rilassante se contemporaneamente non fosse stato impegnato in una mezza dozzina di set cinematografici; alcuni ruoli molto impegnativi, come quelli di Dave Skylark in The Interview e dell’attivista gay Michael Glatze in Michael, entrambi in fase di montaggio; per non parlare di The Sound and the Fury da William Faulkner di cui è attore e regista, presentato a Venezia venerdì scorso, girato di seguito alla riduzione cinematografica di Child of God , dal romanzo del suo idolo Cormac McCarthy. Allora vien da pensare che Broadway sia stata una boccata d’ossigeno del divo strangolato dagli impegni e in cerca di maggiore libertà. Neanche per sogno. «Quando recito, al cinema o in teatro, non è della libertà che ho bisogno», interrompe subito. «La libertà è pericolosa, di solito sono i registi inesperti a lasciarti fare, con pessimi risultati. La chiave di tutto ancora una volta è la disciplina — lo so, lo so, c’è ancora chi si ubriaca la sera della prima. Sono stato sedotto da quella impercettibile, eterea complicità che si stabilisce con il pubblico. L’energia che ti arriva è pari a quella di un concerto rock».
Fare teatro è stata un’altra tappa della sua Odissea. Di giorno Hollywood gli tesse la tela del mito, di notte l’attore ne distrugge le trame con una sfilza di selfie — alcuni impietosi — che pubblica incessantemente su Facebook e Instagram. Smorfie, scatti domestici, in mutande o travestito, il viso montato su una posa provocante di Nicki Minaj, backstage con Lana Del Rey, in classe con alunni e insegnanti, persino seduto sul wc, espressione della sua creatività domestica. «Non vivo tutto questo in maniera schizofrenica, sono pezzi diversi della mia stessa creatività. Non c’è caos, tutt’altro. L’approccio è sempre ben organizzato, se una cosa mi interessa devo farla al meglio, che sia un libro, un film o una campagna pubblicitaria. Certamente per un artista come me che ha avuto visibilità soprattutto nel cinema è sempre difficile farsi accettare nel mondo dell’arte senza suscitare scetticismo». Non del tutto vero, i critici sono sempre stati molto indulgenti, qualsiasi cosa abbia fatto. Anche quelli letterari, quando la prestigiosa Scribner pubblicò nel 2010 Palo Alto, un romanzo-sketch ambientato nella sua città natale che l’anno scorso è diventato un film di Gia Coppola. «Gli incontri, i personaggi, gli eccessi descritti nel romanzo sono quelli della mia adolescenza. Scriverlo e girarlo è stata una full immersion nel passato. Ero un balordo, ne ho scassate di macchine quando ero ubriaco, sono andato anche in galera perché rubacchiavo profumi che poi rivendevo ai compagni di classe. Cominciai a vagheggiare il mestiere dell’attore durante le recite scolastiche, ma non avevo idea di come diventare un professionista finché a diciotto anni non mollai la scuola e fuggii a Los Angeles». Se ne è pentito. Le scuole di recitazione non sono bastate a riempire il gap. Per un artista la cui parola chiave è «disciplina » riprendere l’università è diventato irrinunciabile. Nel 2006, dopo il successo di Spider Man 2( il miglior film mai tratto da un fumetto), James si è sottratto alla morsa di Hollywood e si è iscritto all’Università di California, corsi di Letteratura americana e Scrittura creativa. Studente modello. «Centocinquanta libri da leggere per la tesi», ammette con fierezza, «e adesso sono anche docente. Adoro insegnare, si impara di più. Ci sono molte ragioni per cui ho poi ripreso gli studi. Stavo attraversando quel periodo di depressione intorno ai ventisette anni quando uno comincia a chiedersi: sono fiero di tutto quello che ho fatto? La risposta: se continuerò a fare “solo” l’attore sacrificando tutti gli altri interessi non sarò felice, anche se l’industria vuole confinarmi in questo ruolo». Da quel momento, progetti a raffica. Ora ha in cantiere un libro per bambini, oltre a una mezza dozzina di film ancora in lavorazione o da iniziare. «Ho pronto l’adattamento di Zeroville, il romanzo di Steve Erickson, una storia ambientata nella Hollywood anni Settanta: mi sono rasato la testa per entrare nel personaggio».
Iperattivo? «Sì, è vero, lo sono», ammette infine, «ma non mi è mai capitato di fare una cosa male o in fretta perché ne avevo un’altra in coda. Abbiamo finito di girare Michael quattro giorni fa. Una storia vera, devastante. Sarà un film che solleverà molte polemiche. Michael Glatze era un aggressivo e dinamico attivista gay di San Francisco che alla fine degli anni Novanta ha voltato pagina, ha abbracciato la religione, si è sposato e ha incominciato a minacciare con lo spauracchio dell’inferno i vecchi amici. La sua vicenda ha riaperto antiche diatribe. L’omosessualità è un fatto genetico? È una malattia? Si può guarire? Si può diventare etero?». C’è da scommettere che il suo terzo film a sfondo gay, dopo Milk e Sal, riaccenderà anche il dibattito sulla sessualità dell’attore e sulla sua reputazione di sex symbol transgender. All’epoca rispose con una serie di sfacciate fotografie en travesti scattate da Terry Richardson che finirono in mostra nelle galleria d’arte. «Io non sono prigioniero dei dogmi di Glatze», dice, «la mia famiglia è religiosamente molto eclettica».
Giuseppe Videtti, la Repubblica 7/9/2014