Riccardo Staglianò, la Repubblica 7/9/2014, 7 settembre 2014
TROVA L’ERRORE
Un autocorrettore ci inguaierà. Se non l’ha già fatto. Non necessariamente com’è successo a Hall County, in Georgia, un paio di anni fa, quando la polizia sigillò per un paio d’ore una scuola dopo che uno studente aveva ricevuto un sms all’apparenza minaccioso (gunman be at west hall today). Peccato che «l’uomo armato» (gunman) era solo un «sarò» (gunna, in slang) automaticamente riscritto dal telefonino del mittente. Basta una consonante spostata e un’aggiunta per far arrivare le teste di cuoio. Ma l’ordinaria Babele digitale rigurgita di aneddoti meno bellicosi. Al punto che, a quasi un quarto di secolo dalla sua invenzione, Apple sta per introdurre un correttore che corregge l’autocorrettore e che consentirà di mondare gli errori automatici anche dopo aver pigiato sul tasto “invia”. Un salvavita in zona Cesarini contro il rovinoso paternalismo dell’algoritmo. Che tuttavia ci aiuta, e sempre più dovrà farlo, in un’èra in cui si va su internet (e si digita) più da smartphone e tablet che da pc. Odi et amo, quindi. Situazione ingarbugliata.
Tutto comincia con un matematico di Harvard di nome Dean Hachamovitch che nei primi anni Novanta è squadra di Microsoft che lavora a Word. Sono anni seminali, con la fazione estetizzante (che punta alla bellezza dei font, per dire) e quella funzionalista, di cui fa parte il nostro, interessata solo a rendere più efficiente il programma. Scrive un programmino che, con una semplice combinazione di tasti, sostituisce una parola sbagliata con quella giusta memorizzata in un glossario (tra gli errori più frequenti teh invece di the).
Impiega un anno per rimpinguare la lista dei refusi più frequenti, comprese le parole per metà scritte accidentalmente in maiuscolo. Brevetta l’autocorrettore. Lo usa per qualche scherzo. Una volta manomette il pc del suo capo per far sì che quando digita “Dean” venga invece fuori il nome del suo collega “Mike”. Un’altra, invitato a parlare a scuola della figlia, fa in modo che quando alcuni dei genitori presenti provano a scrivere il nome della ragazzina questo viene sostituito con “la piccola principessa” (gli hacker possono avere un senso dell’umorismo molto tenero). Ma i limiti involontari dell’autocorrezione si manifestano quando, racconta Wired , un tale Bill Vignola scrive una mail esasperata a Bill Gates. Word corregge il suo nome in “Vaginal” e a lui non fa per niente ridere. Come a Goldman Sachs non piace affatto essere ribattezzata dal software “Goddamn Sachs”, “fottuta Sachs”, neanche ci avesse messo le mani qualche nerd di Occupy Wall Street.
Con gli anni i correttori sono diventati più intelligenti, ma gli errori non meno fenomenali. Il loro funzionamento si affida a un algoritmo probabilistico che segue il modello del cosiddetto noisy channel, concetto chiave della teoria dell’informazione. Per il quale il messaggio, all’origine chiaro e distinto, si intorbidisce passando attraverso un canale rumoroso che aggiunge, toglie o cambia di posto varie lettere. Insomma, una specie di autolavaggio di dati che invece di pulire sporca. «Se scrivi koffee in un motore di ricerca» ha spiegato l’ingegnere di Google Mark Paskin al New York Times «puoi intendere la bevanda caffeinata o l’ex segretario generale dell’Onu. Ma coffee è un termine immensamente più popolare di Kofi. Anche se, statisticamente, scrivere caffè con la k è un errore assai raro. L’algoritmo tiene conto di tutte queste variabili, compreso il contesto semantico nel quale il termine si trova, e suggerisce quello giusto». Nei motori di ricerca come nell’autocorrettore, il meccanismo è lo stesso. Si tratta di una educated guess, indovinare a partire dalla conoscenza, ma pur sempre di indovinare si tratta.
La fallibilità dello strumento è ormai sancita nella cultura popolare. Ci sono siti, come Damn You Autocorrect, dedicati agli sciocchezzai partoriti dalla pedanteria spesso fuori luogo delle macchine. Stefano Bartezzaghi, esperto di enigmistica, sa bene che cambiando l’ordine dei fattori testuali il prodotto cambia parecchio e ha una sua ricca casistica: «I miei lettori mi segnalano spesso casi di correzione automatica demenziale, del genere in medio stat virus, perché il computer non conosce virtus». Cita un disastroso caso trovato su internet in cui un figlio vuole dire alla madre che sta uscendo dalla clinica in cui lavora ( coming out of the clinic ) e la madre gli risponde “Io e tuo padre lo abbiamo sempre sospettato, ma ti amiamo come prima”. Il telefonino aveva corretto in coming out of the closet (nascondiglio). Facendo scoprire al figlio che i genitori pensavano da sempre che fosse gay. Ipercorrettismo informatico che sfocia nel politicamente scorretto. Ancora Bartezzaghi: «Su tablet e smartphone scriviamo come se parlassimo, ma i nostri interlocutori ricevono lingua scritta, che resta. Io disinserisco i controllori automatici in ogni apparecchio che adotto: preferisco sbagliare da solo». Il filosofo del linguaggio Roberto Casati, direttore di ricerca al Cern francese, è meglio disposto: «Penso che l’aneddotica degli sbagli certo divertenti e a volte imbarazzanti dell’autocorrettore sia assolutamente negligibile di fronte alle migliaia di correzioni di cui beneficiamo. Bisogna ragionare statisticamente». Che è proprio come ragiona il correttore stesso. Il che spiega l’abissale differenza qualitativa tra le correzioni fatte basandosi sui limitati glossari presenti sul telefonino o invece quelli enormi sedimentati nel cloud. Alla fine i suggerimenti della macchina sono desunti dall’intelligenza (o dalla stupidità) collettiva. Se, come pare, Volvo viene frequentissimamente corretto in vulva, vuol dire che è a quello — come Freud aveva già immaginato pre-Google — più che alle auto svedesi, che pensa la Rete.
Per non dire delle conseguenze cognitive di lungo periodo. Più l’autocorrettore (o auto correttore, come certi automatismi suggeriscono) diventerà affidabile, più gli delegheremo la nostra ortografia. È già successo con la memoria e con l’orientamento. La tecnologia si ripete sempre due volte: la prima come aiutino, la seconda come rimpiazzo.
Riccardo Staglianò, la Repubblica 7/9/2014