Walter Bonatti, la Repubblica 7/9/2014, 7 settembre 2014
WALTER BONATTI DIETRO L’AVVENTURA
MARTEDÌ, 17 OTTOBRE. Davanti a Asa c’è un tratto in cui il fiume è pauroso: roccioni enormi. Sono ingoiato dalla fitta vegetazione e non capisco più niente. Trovo finalmente un capanno abitato da un uomo, una donna e due bambini. Parlano solo quechua. Mi offrono una palta (avocado, ndr) e io mi alleggerisco di insetticida, candele, scarpe da tennis e altre cose. Qui non esistono cavalli né muli né niente. Durante il cammino trovo altre piccole, problematiche oasi dove mangio canne da zucchero e aranci vermosi. Piove a tratti e forte. Il fiume è sempre uguale, innavigabile. La valle incassata, selvaggia, senza torrenti laterali. Io sempre sul lato destro. Nel 1° pomeriggio sono a Ollas. Grande oasi, poco abitata. Qui c’è malaria e mosquitos insopportabili. In un capanno vive una grossa famiglia, mi offre ciccia da canna da zucchero e stanno torchiando canne. Dicono in cattivo spagnolo che il “balsero” ora sta lavorando e fino a domattina non potrà traghettarmi. Qui non mi capiscono. Allora disperato vagolo nella giungla per raggiungere da solo la sponda del Marañon. Qui le rive del fiume sono impraticabili, vegetazione e alberi sono lambiti dalla fortissima corrente fra i tronchi e i rami. Fa paura e occupa tutta la selvaggia vallata. Poi finisce l’oasi. Qui penso di attraversare il fiume a nuoto, ma dove? Tutto è vorticoso, veloce e pieno di curve e di incognite. Sceso al limite della “playa”, al limite delle rocce sotto le quali c’è un gorgo, mi spoglio. Sacco in spalla e scendo nell’acqua gelida al margine del gorgo. Cammino il più possibile, ma dopo due, tre metri ho l’acqua al petto. Mi butto. Sono quasi subito preso dalla corrente, fortissima da sembrare che mi butti indietro oltre che alla deriva. Nuoto a bracciate rapide ma mi sembra di non guadagnare un solo metro. Mi giro e mi accorgo invece di aver già guadagnato distanza verso il centro del fiume, ma la corrente è fortissima, agitata, preoccupante. Continuo a nuotare come un pazzo a bracciate. La sponda verso cui sono diretto è ancora lontana, la vedo sfilare davanti rapida come un treno. Ora si fa sempre più sottile, sto avvicinandomi tragicamente alla foce agitata del corso secondario, che si immette selvaggiamente, e ancora non tocco. Non ho tempo di pensare che sono sommerso da flutti e cavalloni dell’incrocio di acque, duecento e più metri a valle da dove sono partito. Bevo e nuoto, nuoto e bevo a occhi sbarrati. Non ce la faccio più. Mi sento scoppiare il cuore e avverto male al fegato. Ora nuoto a rana. Le acque sono ritornate più calme, il fiume secondario è finito, ma io ho perduto metri dalla costa. Non tocco più. Ho perduto già trecento metri e ne dispongo meno di duecento per abbordare la riva sassosa. Poi si immettono gli altri corsi secondari in un ampio slargo a mulinelli che dà contro le rocce dove il fiume si unifica e riprende la pazza corsa vorticosa contro la sponda rocciosa che determina un’ampia curva. Sono a metà del tratto di duecento metri di sponda sassosa quando tocco. Ma non serve, devo nuotare ancora. Ora l’acqua mi arriva al ventre, ma mi trascina. Nuoto ancora e posso reggermi in piedi soltanto quando ho l’acqua quasi al ginocchio. Faccio due metri sulla riva e con ancora il sacco in spalla mi lascio cadere al suoge lo sfinito e gemente dal freddo. Quando mi riprendo mi dirigo come un automa verso il centro dell’isola sassosa. L’idea di ripetere due volte la traversata mi uccide. Cerco di non pensare a niente e mi incammino il più possibile a monte dell’isola per traversare il secondo canale.
Il sole sta tramontando. Ho un freddo penoso. Mi ritrovo in acqua preso dalla corrente e nuoto a rana orizzontalmente al fiume. Bevo anche stavolta, e si ripete il dolore fisico in forma più paralizzante. Non ne posso più, ma nuoto, nuoto. Mi accorgo quasi improvvisamente di avere svantaggio di terreno rispetto a prima. Ecco, finalmente tocco con la punta di un piede, allora accelero la nuotata fino a scoppiare. Mancheranno ancora solo trenta metri alla fine della playa quando, convinto di potermi rizzare in piedi con l’acqua alle cosce, tocco invece appena coi due piedi. Allora sopravviene la disperazione. Devo aver dato un colpo tremendo col piede sinistro nell’estremo tentativo di spingermi a riva. Ho una fitta acutissima alle dita del piede. Ora non tocco più, sono trasportato al largo, nel grande mulinello che dà sulle rocce dove il fiume si unifica vorticoso. Istintivamente mi giro e accenno qualche bracciata verso la sponda da cui sono partito. Mi accorgo che braccia e gambe non rispondono più ai comandi e il sacco col suo peso mi tira sotto. Ho gli occhi sbarrati volti verso il cielo. Respiro e bevo, tossisco e bevo. Sto annegando. Mi accorgo di girare una-due volte su me stesso tirato verso il basso. Poi mi sento come mollato, il mulinello mi ha buttato al largo in mezzo al fiume che sta per urtare ribollente contro le rocce. Urto contro le rocce e bevo e rotolo col fiume contro altre rocce e io sono sempre inerte, schiacciato dal sacco e i miei occhi non vedono che flutti che mi investono. Non voglio morire. Mi accorgo di non voler morire. Mi dibatto, voglio sciogliermi dallo zaino, perderò tutto ma non la vita. Sono riuscito a mollare uno spallino. Sto per mollare anche l’altro, quando mi accorgo che così mi sento alleggerito, riemerso, posso nuotare pur col sacco appeso sull’altra spalla (la destra). Allora nuoto, verso le rocce dove la corrente continua a rotolare. Poi, è un attimo. Un albero col tronco lambito dai flutti si protende dalle rocce nel fiume. Ho uno scatto e mi ritrovo aggrappato al suo tronco. Sono salvo.
Torcia alla mano cammino su un sentiero incerto verso l’alto della montagna selvaggia, disabitata, con un pentolino di acqua in mano. Qui è tutto brullo. Verso le 21 mi fermo sotto un roccione. Non mangio quasi niente. Non dormirò per paura dei serpenti.
Walter Bonatti, la Repubblica 7/9/2014