Antonio Armellini, Corriere della Sera 8/9/2014, 8 settembre 2014
LA SCOZIA INDIPENDENTE CHE ORA FA PAURA
Per la prima volta dall’inizio della campa-gna il pendolo dei sondaggisi è spostato a favore della separazione della Scozia dal Regno Unito. Il margine è esiguo: 51 a 47%, curiosamente simmetrico a quello che solo pochi giorni fa dava la stessa percentuale a favore dei contrari all’indipendenza. Da qui al 18 settembre i sondaggi potranno cambiare ancora, ma è evidente che quella che era stata ritenuta una battaglia soprattutto di bandiera, con gli unionisti arroccati su un vantaggio di oltre venti punti, si è trasformata in una lotta all’ultimo voto.
Londra sembra essere stata colta di sorpresa: solo la City — da sempre attenta agli umori — aveva già da qualche giorno messo in cantiere misure difensive.
L’esito finale sarà determinato dalla platea degli indecisi e molto sembra avere giocato l’andamento dei dibattiti televisivi tenutisi nelle scorse settimane. Il primo era stato nettamente favorevole agli unionisti; il secondo è stato perso malamente da Alistair Darling (cui David Cameron aveva affidato il compito di difendere le ragioni dell’unione), dando al Chief minister di Edimburgo Alex Salmond un vantaggio che si è affrettato a sfruttare.
Il tema del recupero di una identità usurpata dallo strapotere inglese ha avuto un peso tutto sommato secondario: Braveheart è stato evocato meno di quanto accada fra i leghisti di casa nostra. Si è parlato di cose molto concrete, dal destino del Servizio sanitario nazionale a quello della sterlina, messi in pericolo da una possibile secessione ed entrambi ritenuti fondamentali anche nell’ipotesi di una Scozia indipendente. La pulsione nazionalista è rimasta sullo sfondo, mentre il tradizionale pragmatismo del Paese e il fatto che le identità regionali (non solo quella scozzese, ma anche quelle irlandese e gallese) abbiano ottenuto riconoscimenti via via crescenti, hanno indotto la campagna a puntare sulla promessa di vantaggi economici immediati per sfuggire alla trappola dell’indifferenza.
La Scozia può già oggi contare su molte delle prerogative della sovranità: ha un suo ordinamento giuridico e lo stesso vale per la religione; la devolution ha attribuito al suo Parlamento poteri rilevanti; vi è persino una sterlina scozzese, anche se si tratta di una banconota priva di qualsiasi autonomia. Quali sono allora i punti forti della campagna per l’indipendenza?
Il modello immaginato per la Scozia è stato paragonato a quelli di Paesi come la Norvegia o la Danimarca. Con la prima condividerebbe la prosperità assicurata dalla riserve petrolifere del Mare del Nord che, ancorché calanti, non dovrebbero più essere condivise con altri. Della seconda ricalcherebbe il modello socialdemocratico messo seriamente a rischio dall’egemonia tory : sarebbe stato proprio questo aspetto a indurre molti laburisti scozzesi a cambiare posizione ed esprimersi nei sondaggi per l’indipendenza. Diversamente da entrambe, sarebbe un membro attivo dell’Unione Europea, in antitesi alle posizioni del Regno unito. La separazione sarebbe «dolce»: la nuova Scozia sarebbe retta dalla Regina Elisabetta, manterrebbe come moneta la sterlina, la frontiera sarebbe aperta e verrebbe creato un mercato unico. Molto per certi versi, ma non abbastanza per giustificare un terremoto politico e costituzionale le cui conseguenze restano imprevedibili.
Anche perché, al di là delle intenzioni, la separazione potrebbe rivelarsi assai meno amichevole. Lo strascico di polemiche, da parte di un’opinione pubblica inglese che avrebbe molta difficoltà a capire, rischierebbe di essere forte. Un’unione monetaria presupporrebbe un accordo da parte di Londra che al momento è tutt’altro che certo; senza contare che in tal caso il controllo della politica monetaria resterebbe nelle mani della Banca d’Inghilterra e ad Edimburgo non resterebbe che uniformarsi alle sue decisioni. Senza il voto scozzese il partito laburista sarebbe fortemente ridimensionato; lo spostamento della bilancia a favore dei conservatori nel parlamento di Londra renderebbe problematica la collaborazione con quello di Edimburgo. Industria e finanza in Scozia sono soprattutto inglesi e la separazione provocherebbe un esodo massiccio di cui si vedono già i segnali.
Per Edimburgo l’indipendenza potrebbe rappresentare un salto nel vuoto pericoloso, ma non andrebbe sottovalutato l’impatto per il resto del Paese. Il Regno Unito rimasto sarebbe un Paese sminuito: senza contare la possibile deriva di Galles e Irlanda del Nord, immaginarlo membro permanente del Consiglio di Sicurezza e attore di primo piano sul piano internazionale sarebbe vieppiù difficile. Un’Inghilterra controllata da un partito conservatore senza più una vera opposizione potrebbe rendere concreta l’ipotesi di una uscita dall’Ue, con il rischio di erigere una vera frontiera proprio là dove la si vorrebbe mantenere virtuale. Uno scenario del genere potrebbe forse convenire a quanti vorrebbero per Londra un futuro da maxi-Singapore europea: un grande centro finanziario, con una forte omogeneità sociale e politica, con un sistema economico deregolamentato e liberista. Un piccolo-grande Paese: ricco senza dubbio e magari soddisfatto di sé, ma lontano da quella Gran Bretagna che ancora oggi rivendica il diritto di punch above its weight (farsi valere anche al di là della sua forza) in nome di un prestigio antico.
Mancano diversi giorni e a Londra tutti moltiplicheranno gli sforzi per raddrizzare le sorti di una scommessa che si è fatta difficile; c’è da augurarsi che al momento del voto la spinta emotiva dei sondaggi ceda il passo a valutazioni più pacate. Una vittoria dell’indipendenza aprirebbe una pagina incerta per la Scozia e traumatica per il resto del Regno Unito; una vittoria dell’unione lascerebbe comunque dei segni e renderebbe inevitabile una riflessione in profondità sulle sue motivazioni e i suoi strumenti.