Cesare Rimini, La Stampa 8/9/2014, 8 settembre 2014
LA CONFUSA RIVOLUZIONE DEL DIVORZIO
La lettura delle norme relative alla separazione e al divorzio contenute nel decreto-legge sulla giustizia civile è un’esperienza che suscita, allo stesso tempo, entusiasmo e sconforto.
Partiamo da un dettaglio, nascosto nel corpo dell’art. 19 apparentemente dedicato ad un tema lontano dalla crisi del matrimonio: «Misure per l’efficienza e la semplificazione del processo esecutivo».
Al comma 5, di un articolo lungo alcune pagine, è previsto che l’Archivio dei rapporti finanziari tenuto dall’Agenzia delle Entrate – cioè l’immensa banca dati che contiene gli estremi dei rapporti economici di ciascuno di noi (costruita principalmente con lo scopo di contrastare l’evasione fiscale) – possa essere utilizzata dal giudice nelle cause di separazione e di divorzio. Il giudice potrà accedere alla banca dati direttamente, avvalendosi dell’ufficiale giudiziario. Si tratta di una innovazione importante per il nostro diritto di famiglia: è l’introduzione, anche nel nostro processo, della regola della trasparenza sui redditi e sul patrimonio di ciascuno dei coniugi, principio da anni seguito negli ordinamenti giuridici con cui siamo abituati a confrontarci. Con un semplice accesso informatico alla banca dati, il giudice potrà acquisire informazioni sui beni posseduti e l’elenco dei rapporti bancari e dei depositi intestati ai coniugi; quindi potrà conoscere le operazioni da ciascuno di essi effettuate. L’utilizzazione di questo nuovo strumento, o anche solo la minaccia di utilizzarlo per verificare la rispondenza al vero delle informazioni fornite spontaneamente dalle parti, permetterà di risparmiare le energie infinite attualmente spese per ricostruire i redditi effettivi, il patrimonio e il tenore di vita della famiglia. È però sconfortante che la tecnica legislativa sia quella a cui purtroppo siamo abituati da anni: articoli di legge lunghissimi, illeggibili per chiunque non sia un tecnico (e spesso anche per i tecnici), norme inserite in articoli che, stando al loro titolo, dovrebbero occuparsi di tutt’altro, totale assenza di un disegno organico.
Suscitano stupore anche le norme che riguardano i presupposti della separazione e del divorzio. Gli articoli 7 e 8 del decreto prevedono che, nell’ipotesi in cui non vi sono figli minorenni, la separazione e il divorzio possano essere semplice effetto di un accordo dei coniugi formalizzato davanti a un avvocato o all’ufficiale di stato civile. Si tratta di una riforma epocale, anche se viene confermato che per il divorzio è necessario che siano passati tre anni di separazione (tempo che peraltro il Parlamento si accinge a ridurre in misura consistente). Una riforma che improvvisamente fa dell’Italia uno Stato in cui la procedura per ottenere il divorzio è fra le più sbrigative al mondo: quasi ovunque è infatti necessaria la sentenza di un giudice; nei pochi Stati in cui è possibile ottenere un divorzio «amministrativo» è generalmente richiesta una formalizzazione notarile. Viene demolito per decreto un principio attorno a cui è costruita dal 1970 la nostra legge sul divorzio: la regola per cui lo scioglimento del matrimonio non può essere l’effetto del semplice accordo dei coniugi ma presuppone l’accertamento da parte del giudice della impossibilità di ricostituire l’armonia familiare. Era certamente un principio vecchio – frutto della mediazione di cui la nostra legge sul divorzio è figlia – che andava sostituito da regole nuove. Ma riformare significa costruire principi nuovi e renderli coerenti con il sistema esistente, non demolire senza badare a cosa rimane in piedi e dove finiscono le macerie. Invece la vecchia legge sul divorzio non viene modificata e resta in vigore con l’arcaico tentativo di conciliazione e con la descrizione del divorzio come estremo rimedio concesso dal giudice di fronte all’accertamento dell’impossibilità di ricostituire la comunione spirituale fra i coniugi. La nuova norma si limita ad affiancare la vecchia prevedendo che l’accordo dei coniugi (se non ci sono figli) «produce gli effetti» della sentenza del giudice. È difficile capire come due principi tanto diversi possano stare assieme e quali saranno gli effetti di questa convivenza. Solo la fretta e la mancanza di un disegno organico possono giustificare il risultato.
*Ordinario di diritto privato
all’Università di Milano
twitter: carlorimini