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 2014  settembre 08 Lunedì calendario

L’ATLETICA

si è allontanata dal piacere di superarsi. Dobbiamo abituarci a convivere con record da leggenda, anche vicini fanno già paura per quanto sembrano lontani (Bolt). Incapacità temporanea del sistema o limiti umani raggiunti nella stragrande maggioranza delle discipline? Bella domanda. Zero risposte. Ultimamente, l’unico ad aver traballato è stato il record dell’alto di Sotomayor ( 2,45): Bondarenko e Barshim hanno veramente fatto i salti mortali. Ma ancora niente. Oltre l’asticella del salto in alto maschile (immaginate di arrampicarvi su un cornicione per guardare dall’altra parte) lo spettacolo è più desolante. Il passato schiaccia il presente: si vede soltanto una lunga sequenza di risultati inavvicinabili e un assestamento di parecchi atleti su una fascia medio-alta, non sufficiente per elevarsi al rango superiore. Siamo forse entrati in un’epoca di contemplazione del vissuto sportivo? C’erano il Muro di Berlino, la Guerra Fredda, in alcuni casi il doping di stato. Il filo che ci lega strettamente a certe prestazioni è un composto chimico di ammirazione, immagini ancora vivide, sospetti e illazioni. Pista, concorsi, velocità, mezzofondo, lungo, triplo, giavellotto, ostacoli alti e bassi. Ogni “event” ha impostato la propria mitologia. È pur vero che l’atletica è un’onda, ma oggi il mare è piatto. Un esempio: nel ‘97 i mondiali di Atene si chiusero senza un record. Pochi giorni dopo
nella sola serata del meeting di Zurigo ne vennero stabiliti ben tre. Il nuoto superò ogni barriera grazie al doping tecnologico. Tolti i costumi si tornò a “crono” umani. Recentemente qualcuno di quei record marziani è stato battuto.
E l’atletica? Chi andrà oltre la Koch, la Kratochvilova, la Kravets, Edwards, la Griffith, gli stessi Bolt e Insinbaeva, che avevano un «costume» tutto loro nel fare l’atletica? Un altro esempio: il 29’31’’78 della cinese Wang Junxia nei 10 mila. Erano i primi anni ‘90. Le cinesi apparvero e guarda caso scomparvero (per scongiurare approfondimenti). Quella che vi si è più avvicinata, l’etiope Melkamu è arrivata solo a 29’53’’80, ossia 22 secondi di più: «Ma forse», dice il dt azzurro Magnani, «Tirunesh Dibaba se corre a 14’ i 5000, può farcela». Magnani ammette sinceramente: «Il calendario disorganico non facilita il conseguimento dei record, non fa neppure venir voglia di prepararsi per un record ». Spesso si preferisce, anche per il guadagno, non tanto raggiungere il picco di forma quanto mantenere una discreta condizione più a lungo. «Nel mezzofondo poi è sempre più
complicato organizzare una gara, con i nomi giusti. Di 10 mila se ne fanno pochissimi. Anche perché la pista paga poco. E allora ci si butta sulla strada, dove girano più quattrini. Spesso gli agenti rinunciano a inserire i loro atleti in eventi con troppi personaggi importanti: hanno paura che se loro mandano un atleta a cercare di ottenere un record, magari succede che lo fa un altro. E poi mancano “lepri professionali”, gente capace di sostenere i ritmi giusti per il numero di giri previsto, e quelle poche che ci sono pretendono più soldi, non gli bastano più mille euro». In ogni caso bisogna anche considerare i controlli anti-doping: «Sicuramente ora sono più precisi e tempestivi di prima». Le verifiche della federazione kenyana, la minaccia della Wada di indagare
sui laboratori giamaicani: «Tutto questo ha calmierato l’ambiente, è inevitabile e un po’ triste». Così
come lo è il fatto che i concorsi sono stati abbandonati dalla tv, che toglie agli spettatori la possibilità di saperne
di più su personaggi che meriterebbero molta più considerazione internazionale, come la neozelandese pesista Adams, che non perde da anni, come il pesista tedesco Storl, come
il discobolo tedesco Harting, come i triplisti americani Claye e Taylor, come la giavellottista ceca Spotakova: «Ci sono delle regole precise nella copertura tv: la regia della Diamond League non può trasmettere che poche immagini dei salti o dei lanci». Il perché fa gelare il sangue: «Perché non si vedono gli sponsor».
Ecco allora di cosa dobbiamo contentarci. Dei tre primati indoor ottenuti da Genzebe Dibaba in poche settimane nell’inverno scorso (1500, 3000 e 2 miglia). Di qualche miglior prestazione di staffette che si corrono una volta l’anno (la 4x200 della Giamaica, la 4x1500 del Kenya) e che essendo distanze anomale non hanno alcuna possibilità di incidere su calcoli e opinioni. L’ultimo vero record su pista, ottenuto peraltro in condizioni straordinarie (una finale olimpica è solitamente gara tattica) e con una prestazione difficilmente ripetibile (il famoso tentativo di correre la seconda parte di gara più veloce della prima facendo la lepre di se stesso…), è stato quello di David Rudisha negli 800 (1’40”91). Uniamolo al 6,16 con cui Lavillenie ha spostato Bubka con una robusta spallata in febbraio, aggiungiamoci il recentissimo record del mondo nel martello femminile della polacca Wlodarczyk (79,58), e poi possiamo anche chiudere la finestra senza rimpianti.