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 2014  settembre 06 Sabato calendario

IL MUSEO DI PIANO “UN MIO FOLLE SOGNO TRA PARIGI E CINEMA”

[Renzo Piano] –
PARIGI
«Se non avessi fatto l’architetto, avrei sicuramente lavorato nel cinema». Renzo Piano, che compirà 77 anni tra pochi giorni, confessa un segreto. Un rimpianto? «Tutto sommato, è andata bene così» sorride camminando al terzo piano della Fondazione Jérôme Seydoux-Pathé, la sua nuova creatura parigina in avenue des Gobelins, tredicesimo arrondissement. Oltre duemila metri quadrati, un guscio ricoperto di vetro e acciaio. I primi visitatori provano a riconoscere una forma: una mongolfiera, un armadillo, uno scarabeo. «Un’arca di Noé pronta a salpare con il suo tesoro » osserva l’architetto a proposito dell’archivio di Pathé, centoventi anni di storia del cinema, ora custodito in questa nuova, futuribile casa aperta agli specialisti ma non solo: tutto l’anno saranno organizzati spettacoli, eventi e programmi didattici.
L’architetto genovese stringe mani, parla con la stampa internazionale venuta per l’inaugurazione. Un cantiere difficile, cominciato nel 2008 al posto del Théâtre des Gobelins di fine Ottocento e con la facciata scolpita da Auguste Rodin, di cui si ritrovano due statue all’ingresso. Il teatro, diventato un cinema, era stato chiuso nel 2003. La forma ovale dell’edificio, incastonato tra molti vecchi palazzi, è stata dettata dalla necessità. «Lo spazio a disposizione era molto stretto — racconta Piano — i limiti fisici sono stati enormi. Ma esistono anche limiti umani. Ci sono centinaia di occhi che osservano e si chiedono che cosa stai combinando sotto le loro finestre. Il costruttore deve sempre saper mescolare aspetti pragmatici e culturali».
Una sfida che Piano ha raccolto per tanti motivi. «Pathé è un mito per chi ama il cinema ». I fratelli Charles ed Emile fondano la loro società di fonografi nel lontano 1896, appena qualche anno dopo l’invenzione della settima arte. Incominciano a vedere cineprese e allargano le loro competenze a tutti i mestieri del cinema, comprese le sale. Negli anni Trenta, Pathé Frères inizia la produzione, dando vita ad alcuni capolavori come Les Enfants du Paradis ma anche La Dolce Vita e Il Gattopardo, di cui si conservano nel nuovo museo bellissime fotografie di scena. Un tesoro inestimabile che il produttore Jérôme Seydoux, proprietario del gruppo Pathé dagli anni Novanta, ha voluto mettere in sicurezza in questa nuova struttura. A Seydoux e sua moglie Sophie, direttrice della Fondazione, Piano ha voluto regalare «il sogno un po’ folle dell’eternità». Prendiamo tutti questi reperti del passato e li mettiamo al sicuro: magari non saranno eterni, ma almeno longevi».
Al primo piano, c’è una magnifica collezione di cineprese e proiettori, costruiti dal 1897 in poi. Alcuni formati particolari, come 28mm o 4,75 mm, sono stati inventati proprio dai fratelli Pathé. L’unica cosa che manca è un archivio di pellicole: sono considerate materiale altamente infiammabile e non possono essere archiviate in città, spiega l’architetto. «Sono sempre stato appassionato di cinema» racconta Piano, chiamato anche a riprogettare la sede dell’Academy Museum a Los Angeles. «Come nell’architettura è un mestiere corale, sottoposto alla forza della necessità e a tempi fisici non sempre controllabili ». Il nuovo museo parigino offre un gioco di luci e ombre, con la trasparenze delle 7mila lamelle di alluminio perforato sul tetto. Le mostre sfrutteranno il vasto patrimonio della Fondazione: 4 mila manifesti, disegni, locandine, 500 mila fotografie di scena, 30 mila documenti, tra cui cataloghi e sceneggiature, 350 oggetti e costumi di scena.
Un luogo di memoria che vuole far rivivere l’epoca d’oro del cinema. Al livello interrato, c’è una sala per proiettare film muti, restaurati da Pathé e accompagnati da orchestrine, come una volta. L’architetto spiega ogni dettaglio tecnico: «Abbiamo scavato fino a nove metri di profondità. A Parigi nel terreno c’è il tufo calcareo e non si può andare oltre. A New York è più facile, c’è lo scisto. Per la Morgan Library siamo scesi fino a venti metri ». Piano continua a parlare, senza aspettare le domande. È raggiante, felice di inaugurare un’opera così particolare e importante nella sua città d’adozione. Ha altri progetti in corso nella Ville Lumière, come il nuovo tribunale, anche se è negli Usa che lavora di più: in autunno inaugurerà il nuovo Whitney Museum.
A Parigi, Piano ha incominciato a frequentare i cinema d’art et d’essai insieme all’amico Richard Rogers. «Venivamo da Londra, eravamo dei ragazzacci. Ci sentivamo come i Beatles dell’architettura». Una coppia che quarant’anni fa scosse i puristi, facendo atterrare l’astronave del Centre Pompidou in pieno centro. «Quante ce ne hanno dette» ricorda Piano. «Chi parlava di un piroscafo, chi di una raffineria. Erano per lo più definizioni negative. Ma a noi facevano ridere. Anzi più ci criticavano, più ci convincevamo che avevamo colto nel segno». Ora il Pompidou è diventato un classico, nota l’architetto. Ma Parigi è ancora una città in movimento, capace di osare e lanciare tanti cantieri. In Italia, invece, basta spostare una pietra per scatenare polemiche infinite e bloccare tutto. «Abbiamo un atteggiamento un po’ beghino, senza comprendere che la bellezza delle città europee è nella stratificazione di stili e opere» spiega Piano, che oltre ai tanti premi è diventato anche senatore a vita. Uscendo in avenue des Gobelins la sede della Fondazione è quasi invisibile dietro alla facciata ottocentesca. «Abbiamo fatto un edificio riservato», dice. «E’ dall’alto che si vede meglio» spiega, mostrando foto aeree. Piano ama la leggerezza, le trasparenze e il cielo. La sua casa nel Marais è «in cima ai tetti». Parigi è una città ancora molto orizzontale, conclude, ma invoglia a scalare il cielo.
Anais Ginori, la Repubblica 6/9/2014