Notizie tratte da: Irene Brin # L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952 # Viella editore Roma 2014 # pp. 240, 22 euro., 6 settembre 2014
Notizie tratte da: Irene Brin, L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952, Viella editore Roma 2014, pp
Notizie tratte da: Irene Brin, L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952, Viella editore Roma 2014, pp. 240, 22 euro.
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Nomi Vero nome di Irene Brin: Maria Vittoria Rossi. Lo pseudonimo glielo trovò Leo Longanesi che per lei voleva «un nome corto, brillante, pungente, come la sua scrittura».
Genitori Maria Vittoria Rossi nasce a Roma il 14 luglio del 1911 da Maria Pia Luzzatto, «un’intellettuale, giovane, vulnerabile, di origine straniera e agiatamente borghese», e da Vincenzo Rossi, «generale, di età matura, di principi inflessibili, di origine ligure e contadina». Nel 1914 nasce a Firenze la sorella Franca e pochi anni dopo la famiglia si ritrova a Genova.
Poliglotta La madre, d’accordo con il marito, la ritira dalla scuola all’età di quindici anni, al termine del ginnasio. Mariù, com’è chiamata dai suoi familiari, cresce leggendo un libro al giorno in diverse lingue tanto da conoscerne in breve cinque in modo talmente approfondito da diventare, negli anni seguenti, traduttrice di inglese, francese, tedesco, spagnolo: «Sono poliglotta e ho tradotto a tutt’oggi centocinquanta volumi», scrive nel 1968.
Cani schiacciati Appassionata di scrittura fin da ragazzina, manda il suo primo «pezzettino» al capo-ufficio pubblicità della società marittima di Genova presso la quale lavora il padre. Quando nel 1932 comincia a scrivere nella redazione del “Lavoro” si specializza in articoli che più tardi saranno chiamati “di costume”, ma che a all’epoca vengono sprezzantemente definiti “cani schiacciati”: «Nessun redattore vero voleva occuparsi dei cani schiacciati, metaforicamente o no, tranne questa ragazzina miope, con le gambe lunghe, una curiosità inesauribile».
Maestri Tra i suoi maestri Mario Melloni e Giovanni Ansaldo, ma «il migliore fu senza dubbio Leo Longanesi che mi pubblicò nel primo numero di “Omnibus”, lo stesso giorno del mio matrimonio».
Nozze Il 3 aprile del 1937 sposa il tenente Gaspero del Corso, conosciuto a Roma durante un ballo. Il 23 novembre del 1946 alle ore 18 nasce la loro galleria, L’Obelisco in via Sistina, che si inaugura con una mostra di Giorgio Morandi.
Ultimo scritto L’Italia esplode, ultimo suo scritto prima della morte, ritrovato nel 2009 nell’archivio della galleria L’Obelisco. L’opera, in forma di diario, è la cronistoria dell’anno 1952, suddivisa in dodici capitoli, tanti quanti sono i mesi dell’anno.
Ginocchia Abitudine di Irene Brin: scrivere a letto con la macchina da scrivere sulle ginocchia.
Scarpine Vezzi di Irene Brin: calza estate e inverno scarpine che sono quasi dei sandali, fermate da un cinturino sul tallone e aperte anche davanti a lasciar vedere le unghie smaltate; non porta gli occhiali pur essendo miope, «così il suo sguardo celeste, tanto chiaro da sembrare trasparente, vaga in una nube trasognata». (S. Petrignani, Addio a Roma, Neri Pozza, 2012)
Esplosione «Nell’autunno del 1951, ebbi un collasso, a Chartres. Mio marito mi ricondusse a Roma, e rimasi a letto lunghe settimane. Per divertirmi, mi posava sulle lenzuola le varie lettere in arrivo: volevo organizzare un Festival di Moda, a Punta del Este? Una mostra di pittura moderna, a Bâton Rouge? Un giro delle Puglie con Henri ed Eli Cartier-Bresson? Intervistare Graham Greene, che progettava un libro su Roma? O Aldous Huxley, che progettava un libro su Roma? Così, lentamente [...] capii che Roma era diventata il centro del mondo. E valeva la pena di partecipare all’esplosione».
Burri La mostra di Alberto Burri “Neri e Muffe”, inaugurata all’Obelisco il 2 gennaio 1952, fu «un disastro»: «Leggere sul quotidiano del mattino che “si tratta di un burro speciale, in quanto nero ed ammuffito, mentre di solito il burro ammuffisce in grigio”, non era tanto piacevole. Un quotidiano della sera non resistette a biasimare una “arte ormai imburrata ed annerita”». «[...] i Burri non si vendevano, nemmeno quelli, in formato da tavola o tascabile, che costavano cinquanta dollari l’uno. Solo uno psichiatra di Chicago capitò una sera a spiegarci quanto simbolici e deplorevoli fossero i “Neri” e le “Muffe”, poi la mattina dopo tornò a scegliersene due (tirando enormemente sul prezzo)».
Cognomi «In linea generale devo ammettere che i cognomi de gli artisti da noi amati e stimati ci valsero beffe di ogni genere, figuriamoci per Matta o per i Pomodoro».
Tailleur Nel 1952 Diana Vreeland, nota giornalista di Harper’s Bazaar specializzata nella moda, sceglie Irene Brin come Rome editor dopo averla ammirata a New York con un tailleur griffato Fabiani.
Oro pallido Nel 1952 Irene Brin intervistò la scrittrice Nancy Mitford, che progettava un romanzo ambientato a Roma: «Quando la vidi, indossava un indimenticabile abito di Schiaparelli, nero, con maniche a
prosciutto, pouff, e cappa drappeggiata scarlatta. Mi spiegò che Roma stava diventando straordinaria: “Pensi, ieri sera, ad un pranzo, c’era una sconosciuta con mantello di lontra oro pallido. Di pellicce così, finora, ce
n’era una sola, a New York. Ora, un’altra, a Roma. Forse intitolerò così il mio romanzo romano: “Il secondo mantello di lontra oro pallido”.
Vestiti Il 21 gennaio 1952 arrivò a Roma Carmel Snow, direttrice di Harper’s Bazaar: «Non ho mai conosciuto un’altra donna, nemmeno Elizabeth Taylor, che si comprasse tanti vestiti. Ma Elizabeth, avara ed incerta, li conserva, se li trascina dietro, ne è prigioniera. Carmel se ne liberava ogni sei mesi, mettendoli in vendita a prezzi abbastanza bassi perché tutte le sue redattrici potessero comprarsi un modello di Balenciaga o di Dior, col rotolino degli avanzi accuratamente spillato al colletto per eventuali modifiche. Li vendeva, ne sono certa, per non offenderle con un dono. Le due ragazze Bouvier, note oggi come Jaqueline Kennedy e Lee Radziwill, redattrici praticanti e figlie di miliardari, erano le prime nella corsa agli acquisti».
Lettere Lettera ricevuta nel marzo 1952 da Irene Brin su carta intestata “Apricots’ Farm”, azienda agricola sud-africana, specializzata in albicocche: “Cara signora Brin, la sua amica Carmel Snow suggerisce che io mi rivolga a lei per un problema. La mia seconda moglie [...] fu sempre celebre per la sua bellezza. [...] mia moglie era a Londra molto ammirata, ed ora, dopo il nostro soggiorno qui, si sente imbruttita, fuori moda, British Colonial, e, insomma, non in grado di affrontare la season londinese. Io, però, devo andare a Londra e avrei pensato che mia moglie potrebbe ridiventare sensazionale con un soggiorno di due settimane a Roma – se lei si prendesse cura di guidarla. Carmel dice che attualmente i migliori parrucchieri, sarti, calzolai sono a Roma, ma lei, signora Brin, dovrebbe servire da Pigmalione. Possiamo contare sul suo aiuto?».
Innamorato Jean Genet, in visita ormai vecchio a Roma, «mangiava fettuccine, gravemente, beveva Frascati, sembrava un boxeur in pensione». Sua risposta a Irene Brin che lo invitava a colazione da una duchessa meridionale: «Je regrette, no. Non amo ricordare il passato. Ed in questi giorni non posso assolutamente perdere un solo minuto. Sono innamorato quanto il Giovane Werther. Come Goethe, scopro la grandezza di Roma e la gioia di vivere».
Gamba difettosa Marie-Louise Bousquet, capo della redazione parigina di Harper’s Bazaar, sviluppò «al massimo il fascino di una gamba difettosa, acquistandone un modo di camminare particolare a lei sola, un saltellío con soste, un’hésitation con giravolta, un cake-walk con aggiunta di zapateado. Mi dicono fosse ottima nel charleston».
Yoga Rosette Veber, moglie del compositore francese Jacques Ibert, cultrice di yoga, passava lunghe ore notturne con la testa in giù: «Conosco Roma meglio di Ingres, lui capovolta non la vedeva mai».
Pecore Una volta, mentre Irene Brin mangiava con l’indossatrice Ivy Nicholson in un’osteria a Tor Carbone, « un gregge di pecore passò, giusto oltre la piccola siepe».
Principe «Lunga, sottile, con gli occhi larghi e distanti, Ivy Nicholson entrò nella mia galleria con una piccola valigia: “Sono la nuova cover-girl di Harpers, ho bisogno del suo aiuto. Prima di sistemarmi a Roma devo trovare un marito. Che sia principe. Magari povero, io guadagno moltissimo. Ma principe. Ho sempre sognato di esser principessa”».
Italiani Nella primavera 1952 Irene Brin intervistò Ingrid Bergman per conto di un settimanale italiano. «Mi diede l’impressione di un’estrema incertezza, anche se fisicamente si era maturata, ingrassando e probabilmente piangendo: “Studio l’italiano, credo che presto lo parlerò bene. Ma studio anche gli Italiani e temo che li capirò sempre male. Ognuno di voi dà l’impressione di un’assoluta esperienza. Non solo gli adulti, non solo gli intellettuali. Tutti. La mia cuoca. I bambini. Gli sconosciuti. Avete l’aria di vivere da mille anni. Io non ho vissuto affatto”».
Nevrastenia Jennifer Jones, arrivata a Roma nell’aprile 1952 per girare “Stazione Termini” con Montgomery Clift e sotto la regia di de Sica, «soffriva già della singolare nevrastenia che doveva poi condurla a innumerevoli stravaganze: il terrore di invecchiare, di esser meno bella del giorno innanzi».
Dalì Nel 1947 Irene Brin conobbe Salvador Dalí curando, per Longanesi, la traduzione in italiano della sua “Vita Segreta”.
Truc Nell’aprile del 1952 Irene Brin incontro in Piazza Barberini Salvador Dalí. «“Irèèèèèèèèène! Tu l’as toujours, ton truc?”. Trassi dalla borsetta la colomba d’argento, filettata d’oro, che mi serve da porta-cipria, porta-pillole e porta-rossetto. Disegnata da Dalí, firmata da Dalí, ricordo delle mie fatiche per Dalí: “Ah, ma devi rrrrrendermela!”. Dalí arrotava tutte le sue r spagnuole, in qualunque lingua parlasse. “Non usa più, ti ci devo installare l’acqua corrrrrente…”».
Coprofago Prime parole che Gala rivolse a Salvador Dalí: «Lei è realmente coprofago, Signor Dalí?».
Fettuccine Dalì che riusciva a mangiare le fettuccine senza scomporsi i baffi.
Bastoncino Dalì sul suo bastoncino: «Lo porto sempre, a Roma, e faccio finta di zoppicare, ai Romani piacciono gli zoppi».
Ricchi 1 Gala e Salvador Dalì «avevano trascorso in America gli anni della
guerra, diventando ricchissimi. Ormai a Cadaquès possedevano una villa
riprodotta da tutte le riviste illustrate; e i gioielli di Gala erano favolosi; e i
loro conti in banca internazionali».
Ricchi 2 Un giorno, a pranzo con Irene Brin, Salvador Dalì, posando improvvisamente il cucchiaio, chiese: «Credete che Giorgio de Chirico abbia più milioni, o meno, di me?». E decise di risolvere il dubbio telefonando subito a de Chirico. La Brin lo accompagnò al telefono: «Allô? Sono Salvador Dalí. Posso parlare col maestro?». Dall’altra estremità del filo rispose, inconfondibile e baritonale, la voce del maestro: «Oh, non, je suis à la campagne, oh, no, mi trovo in campagna.…».
L’ora italiana «[...] prima ancora che “Vita Segreta” apparisse in libreria, Salvador Dalí si era installato a Roma, per curare le scene e i decori di “As you like it”, con regia di Luchino Visconti. Perché, guadagnando ormai somme enormi col cinema (le scene di terrore nei films di Hitchcock erano sempre studiate da lui), con la decorazione di vetrine, con i ritratti mondani, Dalí
aveva deciso di lavorare in Italia, guadagnando relativamente pochissimo? Perché, come Ingrid Bergman e Jennifer Jones, come Jean Genet e Carson
Mc Cullers, sentiva che stavamo vivendo all’ora italiana».
Luncheonnettes 1 Nel 1952 «improvvisamente Roma si riempì di Americani con cognomi napoletani ed una estrema arroganza: aprivano dappertutto dei ristoranti di tipo economico, definendoli luncheonnettes. Arrivammo a contarne una dozzina, sparsi tra l’Eur ed i Parioli, ed in genere diretti o sovvenzionati da ex-gangsters».
Luncheonnettes 2 Nei luncheonette americani, su ogni tavolo niente tovaglia, ma il reggi-tovagliolini, il sale, il pepe, la mostarda, lo zucchero, i fiammiferi, il menù. «L’elenco dei cibi era breve, in qualsiasi luncheonette, e scritto nell’italiano particolare alle prime traduzioni da Saroyan o da Steinbeck quando nessun traduttore sapeva esattamente cosa fosse un waffle, un pastrami,
un cheeseburger. Io tentai una specie di inchiesta, chiedevo di parlare con proprietari, cuoche, pasticceri, e in genere mi trovavo davanti una muraglia
di segreti. Oppure una montagna di scatolette. “Perché i vostri fagioli portano il nome di Mrs. Wagner? Chi è Mrs. Wagner?”. Lo domandavo al manager del “Colony”, Via Aurora. “La nostra cuoca. Molti anni fa. Morta”. “Mi dispiace. E questi altri fagioli, al forno, i Boston Baked Beans, sono davvero cucinati come a Boston?”. “Naturalmente. Li cucinano a Boston. Li inscatolano, a Boston. Ce li spediscono, da Boston”. “E questa zuppa di fagioli si chiama Francovich per via del produttore Francovich?”. Me ne informavo al “San Francisco” di Piazza Ungheria. “Neanche per sogno. Per via di sua moglie, Binnie Barnes. Non conosce Binnie? Oh, è fantastica. Ci ha insegnato a metter l’aglio nella zuppa di
fagioli”. “Perché le patate fritte sono indicate come francesi?”. “Perché sì”. “Che cosa è un beaf-burgher?”. “Lo provi”».
Saltinbocchi «I dirigenti delle luncheonettes erano cittadini americani (anche se di nome napoletano). Il personale, smunto, vagamente atterrito, era italiano, ravvivato con piccoli tocchi pittoreschi, qualche berrettino, qualche grembiuletto. I frequentatori, romanissimi. Mentre i turisti anglosassoni cercavano avidamente “saltinbocchi, scallopini, spagghetti”, chiedendoli con strane pronunce nei nostri ristoranti, noi ci nutrivamo di “Western Omelette” o di
“Sundaes al cioccolato”, con ingenuo, ma sincero fervore».
Ballo in maschera Inviti distribuiti a Roma per un ballo mascherato all’Open Gate: «Le signore possono portare un abito da sera qualunque, ma devono truccarsi il volto ed i capelli in maniera da somigliare a insetti». Nella modisteria di Cesare Canessa «si preparavano le acconciature con un gusto ed una cultura perfetti, da grande secolo napoletano. Cesare Canessa aveva per l’occasione studiato Fabre e i pittori surrealisti [...] Per Consuelo Crespi era già pronta una mouche bleue, ali trasparenti sulla fronte, cascate di perle sulla nuca. Per Milagros Colonna una libellula iridata. Per Mimosa Pignatari un ragno color miele».
Vecchiaia La signora Bird, una vecchia americana estremamente ricca, volendo ringiovanire si sottopose ad ogni genere di cure: «Vennero, da paesi oltre cortina, dotto resse in perfetta buona fede con iniezioni a base di innocua aspirina. Vennero specialisti degli ormoni e chirurghi e dietisti, e in una città svizzera Mrs. Bird si sottopose a tante cure che ne morì».
Pasticcera Nel giugno 1952, Irene Brin incontrò lady Patachou, che cantava regolarmente in un locale della Via Cassia, applaudita fra gli altri da Aldo Fabrizi: «“Un repertorio deve esser fondamentale” mi spiegò ricevendomi nel suo minuscolo camerino, dove, d’altronde, non c’erano abiti di ricambio né
altri convenzionali accessori, poiché si truccava pochissimo, e portava sempre una gonna nera, una camicetta bianca, “me lo ha insegnato Maurice
Chevalier. Lei sa che Chevalier ed io… È stato lui ad inventare il mio soprannome, perché in origine io facevo la pasticcera. Pâte à choux, ero bravissima nel preparare quei pasticcini, che noi chiamiamo choux, e li riempiamo di crema».
Party Nel 1952 «la PanariaFilm offrì, per festeggiare Jean Renoir e la “Carrozza del Santissimo Sacramento”, una festa peruviana, si bevve il “Camilla”, così chiamato in onore della Périchole, e composto principalmente di pisco, si servirono sustancia e ricchi cibi peruviani. La stessa Panaria Film, poco dopo, al “Molino di Isola Farnese” onorò altri due “primi giri di manovella”, con una gran merenda campagnuola. I films erano “Missione senza gloria” e “A fil di spada”. La Mambretti Film, nel teatro numero 4 di Cinecittà, ricostruì un paesaggio russo: a destra una vera tenda della Croce Rossa, a sinistra il nostro Comando Militare sul Don. Caviale e wodka. Al Grand Hôtel, per il “Quo Vadis”, fiumi di Negroni, tra due leoncini installati ai lati dei barmen: il leoncino “Quo” ed il leoncino “Vadis”. All’Open Gate, per un altro colosso di ambiente neroniano: un colosseo di
zucchero, sei lupe di ghiaccio che reggevano ciascuna un pasticcio in fegato d’oca, ma si scioglievano adagio, con un curioso effetto di allattamento».
Caracalla Nell’agosto 1952 «a Caracalla si potè vedere Stravinsky, con la sua opulenta moglie, Vera, applaudire la “Carmen” di Bizet [...]. Sempre a Caracalla, Graham Greene si meravigliava per l’immenso “salone di Flora”, nel penultimo atto della “Traviata”».
Tre pullover «Al ristorante “Passetto”, la sera di Ferragosto, vidi Marlene Dietrich raffreddatissima, con coppello di feltro e triplice pullover consumare
un’enorme quantità di cibo. Davanti a lei il mangiatore di fuoco inghiottiva petrolio e sputava vampate».
Seni al burro di cacao Nel camerino di un ristorante-teatro di New York, Irene Brin incontrò Mae West, ormai sessantenne: «Ah, Roma, Roma! Ho visto tanti film italiani, sa? Però quelle vostre ragazze non dureranno, creda, non dureranno quanto me. Ogni mattina, svegliandomi, io penso salute, riposo, dieta, ginnastica, denti, moto, piedi, capelli, trucco, carnagione. E poi penso, personalità. E poi sex appeal. Mi può dire, lei quante di queste ragazze italiane fanno la mattina un esame di coscienza così? Non lo fanno. Mangiano fritti. Io non mangio fritti. Ed il seno, il celebre seno italiano? Lo sa che mia nonna ne aveva tre? Io, con due, me la sono sempre cavata. Li curo al burro di cacao».
Rosato o celestino «Elizabeth Arden era allora, con Helena Rubinstein, la massima autorità in fatto di prodotti cosmetici. Assai più inglese che non americana, conduceva la sua esistenza secondo canoni di rigorosa autorità interrotta da improvvisi capricci. Un solo matrimonio, niente figli, il gusto dei colori pastello e dei cavalli purosangue, un impero governato come lo avrebbe fatto la Regina Vittoria se, invece dell’India, avesse dovuto sfruttare l’Ardena Fluffy Cream o qualcosa del genere. Casa, abiti, scatole, flaconi, tutto nel regno di Elizabeth era rosato o celestino».
Dive Irene Brin andò a New York per ventuno giorni, assieme a suo marito, per seguire, durante la Settimana Italiana del Cinema, tre dive: Silvana Mangano, Marina Berti e Eleonora Rossi Drago.
Rossetto 1 Quando i fotografi americani videro scendere dall’aereo Marina Berti e Eleonora Rossi Drago urlarono: «“Miss Brin! Dica alle ragazze di mettersi in ordine”. “In ordine?”. “Ma certo. Devono aver sofferto il mal d’aria. Devono essere stanche. Non vede che facce livide?”. [...] Salii a bordo, cercai di spiegare. La risposta, gelida, fu quella che prevedevo: “È da quando abbiamo lasciato Gander che ci siamo rifatte il trucco. Non abbiamo intenzione di cambiarlo”. Trucco italiano 1952. Labbra bianche, viso beige, palpebre ocra. Ridiscesi e parlamentai con i fotografi. “Dica a queste ragazze che nell’aeroporto c’è un rest-room. Vadano lì, gli diamo un caffè caldo, dieci minuti tranquilli, e si metteranno almeno il rossetto”. “Lo hanno già”. “Se non hanno il rossetto vero non fotografiamo”. Risalii nell’apparecchio. Le dive accettarono di andare nella rest-room, che sarebbe un eufemismo per lavabo, ma non di cambiare rossetto. [...] Metà dei fotografi se ne andò. L’altra metà [...] le fotografò com’erano. L’indomani, sulla prima pagina dei quotidiani, si poteva leggere: “Le ragazze italiane non portano rossetto”».
Rossetto 2 Sia Elizabeth Arden che Helena Rubinstein telefonarono alla Brin per sapere se le italiane davvero non portavano il rossetto. «La notizia rimbalzò in tutta l’America, insieme con la spiegazione rassicurante, rossetto bianco, rossetto crema, rossetto giallino, ma sempre rossetto. Da Hollywood, Marylin Monroe telegrafò a Giorgio e Loredana Pavone perché le
mandassero dodici “matite all’italiana”».
Un vestito A tutti gli eventi della Settimana italiana del cinema, la Berti, che si era portata appresso un bauletto pieno di pellicce, si presentò con lo stesso vestito scozzese.
Parole La Berti durante la Settimana del cinema non rivolse a Irene Brin nemmeno una parola.
Gioielli Silvana Mangano le parlò una volta sola, nella sua suite: «“Il mio anello di rubini è scomparso. Otto milioni. Denunci. Ritrovi”. “Scomparso da quando?”. “Ieri sera, rientrando lo avevo ancora”. “Allora lei accusa il personale dell’albergo? Lo sa che può provocare uno sciopero generale delle Unions, dei Sindacati?”. “Perché dovrei saperlo?”. “Non possiamo avvertire la Compagnia Assicuratrice, invece?”. “E le sembro il tipo di assicurare i miei gioielli?”. Lo disse con orrore, ripugnanza e meraviglia. E il rubino non fu mai ritrovato».
Borsetta Non si ritrovò nemmeno «la borsetta, con passaporto, denari, gioielli, oggetti d’oro, lasciata da Eleonora Rossi-Drago sul bancone del “Toyland” dove, per coltivare la image della madre perfetta, fingeva di comprar giocattoli. I fotografi ebbero così l’image sorridente e, subito dopo, l’image furibonda
della donna derubata».
Spaghetti Irene Brin rabbrividì «in silenzio» quando il fotografo Milton Greene, ricevendola a casa sua, le disse: «Ho messo gli spaghetti a cuocere dalle nove di stamani, per le due dovrebbero esser pronti».
Abiti Ava Gardner che veniva spesso a Roma per comprarsi abiti, generalmente dalle Sorelle Fontana.
Gatti 1 I Romani, nel dicembre 1952, «si occupavano soprattutto di gatti» [...]. C’era stato un concorso felino, all’Antica Cavallerizza (oggi distrutta), in Via Luisa di Savoia. Il 16 dicembre inaugurammo all’Obelisco una mostra dedicata ai “Gatti”, in copertina un dettaglio della “May Belfort”, di Lautrec, ed i partecipanti erano abbastanza diversi tra loro: i bambini della Scuola di Bornacino; le litografie di Bonnard; i disegni di Caruso, le acqueforti originali acquarellate da Chagall, un “Arlequin au chat” di Antoni Clavé, “El gatito blanco” di Maria San Marti Clavé [...] Nella vetrina, ma solo per il giorno del vernissage, i più bei gatti di Roma giocavano, tranquilli,
sotto gli occhi dei passanti. [...] I critici romani scrissero: “L’Obelisco è finito, come si prevedeva, allo Zoo”».
Gatti 2 Elsa Morante scrisse alla Brin una lettera in cui si scusava di averle prestato, la mostra, «solo un gatto, il “Siamese” dipinto da Linda Chittaro. Avrei dovuto fare di più, lo so, da vari giorni ne provo rimorso, ma il fatto è questo, in qualunque altro momento sarei stata lieta di prestarvi tutti i miei gatti per l’esposizione, ed anche, se li avessi i miei Rembrandt ed i miei Raffaelli. Ma siamo a Natale, ed ho deciso di dare quasi una festa per l’inaugurazione della mia nuova casa, naturalmente i ritratti gatteschi e i miei gatti veri sono la parte più importante. In nome di tutti i gatti del mondo io vi prego, cara Irene e caro Gaspero, di perdonarmi [...]”.
Gabinetto Nel corso del 1952 Irene Brin pubblicò «due volumi, quello su Lautrec, che fu tradotto in inglese, e quello sul Galateo che conobbe una quantità di ristampe». Subito investì i suoi diritti d’autore «nell’acquisto di un appartamento crollante, ma con una vista meravigliosa sul giardino della chiesa Santa Maria in Trastevere». Un giorno, tuttavia, le capitò di trovarsi davanti «una tribù di protestatari perché da un balconcino avevamo tolto il gabinetto esterno, sistemando all’interno una vera stanza da bagno: “Quel balconcino, con gabinetto dalla porta vivacemente colorata di azzurro, costituiva una nota pittoresca, cui i miei assistiti non vogliono rinunciare”, mi spiegò un brillante avvocato. “Per cui ricostruisca il gabinetto, eventualmente lasciandolo vuoto, rimettendo a posto la porta. Oppure compensi, con congrua cifra, il danno estetico subito da questa brava gente, affezionata al vero stile della loro città”».
Crepare «Mi sono occupata di arredamento (il primo Domus, con Ponti), di moda ancora con Ponti; di storia con Longanesi; di Piccola Posta, con Luigi Barzini; sono stata titolare di ogni possibile rubrica, musica esclusa, ma politica e sport inclusi. A trent’anni, ebbi il piacere di leggere: “E questa Irene Brin quando crepa per lasciar il posto a noi giovani?”».
Irene Brin, L’Italia esplode. Diario dell’anno 1952, Viella editore, Roma, 2014, 240 pagine, 22 euro