Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 06 Sabato calendario

QUELLE PESANTI EREDITÀ

Le voci, secondo cui il governo Renzi starebbe valutando la possibilità di reintrodurre nell’ordinamento fiscale italiano l’imposta di successione allineando l’aliquota a quella in vigore negli altri Paesi europei, sono tornate a circolare con forza proprio mentre a Piazza Affari l’attenzione degli investitori è puntata sulle possibili evoluzioni nella governance e negli assetti proprietari di due dei principali gruppi industriali italiani a controllo familiare: il gruppo Luxottica, controllato tramite la lussemburghese Delfin da Leonardo Del Vecchio, e il gruppo Fininvest-Mediaset, il cui controllo fa capo all’ex premier Silvio Berlusconi e ai suoi cinque figli. Le dimissioni di Andrea Guerra dalla carica di amministratore delegato della multinazionale degli occhiali, al pari del coinvolgimento di Mediaset (che di Fininvest è il principale asset) nel risiko paneuropeo che sta infiammando il settore della telefonia e dei media, potrebbero accelerare quel processo di ridefinizione degli assetti futuri dei due gruppi che finora i loro fondatori non avevano ancora portato fino in fondo.
Se è infatti vero che da anni ormai Berlusconi ha girato parte del suo pacchetto azionario di Fininvest ai figli avuti dai suoi due matrimoni (entrambi chiusi con il divorzio, prima da Carla Dall’Oglio e poi da Veronica Lario), pur mantenendo per se una quota del 63% che gli garantisce il controllo, e che Del Vecchio ha girato, in parti tra loro uguali ai sei figli avuti da tre mogli diverse, tutte le azioni della lussemburghese Delfin (conservando per se i diritti di voto), è altrettanto vero che nessuno dei due ha ancora pianificato fino in fondo la propria successione. A differenza di quanto accaduto in casa Agnelli, dove il principio tanto caro all’Avvocato secondo cui «bisogna che a decidere e a comandare sia uno solo», si è concretizzato ormai nel lontano 1987 con la nascita dell’accomandita Giovanni Agnelli Sapaz, che da allora riunisce le partecipazioni detenute dagli innumerevoli discendenti del senatore Giovanni Agnelli I, ma dove il timone è oggi saldamente in mano a John Elkann, sia Berlusconi sia Del Vecchio, non hanno designato ufficialmente il proprio successore alla guida del gruppo da loro fondato né hanno tracciato una strada per garantire ai propri figli un futuro da grandi rentier ma senza ruoli operativi. Una soluzione, quest’ultima, che passerebbe evidentemente o dalla cessione del controllo dei propri gruppi o da una grande alleanza internazionale con conseguente diluizione della partecipazione e dunque meno diritti dei figli a pretendere un posto nella prima linea manageriale. Ipotesi, quest’ultima, che, stando ai rumors circolati nelle ultime settimane, potrebbe valere più per Fininvest-Mediaset che per Luxottica, considerato che per il gruppo del Biscione potrebbero aprirsi, almeno sulla carta, le porte di un’alleanza strategica con Telecom Italia o con il colosso francese dei media Vivendi, mentre proprio sulla politica delle alleanze internazionali si sarebbe consumata la rottura tra Guerra e Del Vecchio, con quest’ultimo determinato a non diluire la propria partecipazione in un merger tra eguali, perdendo di fatto il controllo della società a favore del management.
Ma Fininvest e Luxottica non sono gli unici grandi gruppi italiani in cui i futuri assetti proprietari non sono ancora stati definiti con chiarezza. Incerto rimane anche il quadro relativo ad Esselunga, dove l’89enne Bernardo Caprotti è ancora saldamente al timone dell’azienda da lui fondata, ma anche in casa Benetton, dove solo qualche anno fa sembrava che le redini del gruppo sarebbero in futuro passate ad Alessandro, ma che ora non ha più incarichi operativi nelle aziende del gruppo.
Chi invece sembra essersi mosso per tempo è stato Carlo De Benedetti, un altro dei capitani di ventura degli anni 80, che come Del Vecchio, Benetton e Berlusconi si è costruito nel tempo un’impero industriale. Il percorso con cui l’Ingegnere ha girato ai suoi tre figli (Rodolfo, Marco ed Edoardo) tutte le azioni dell’accomandita cui fa capo Cofide e a cascata il gruppo Cir con le sue partecipazioni (Espresso, Sogefi, Kos e la travagliata Sorgenia) si è infatti completato lo scorso luglio con il passaggio dell’ultimo pacchetto azionario dal fondatore ai suoi eredi e il cambiamento della denominazione sociale da «Carlo De Benedetti & Figli sapa» in «Rodolfo, Marco ed Edoardo De Benedetti sapa» (o anche «Fratelli De Benedetti sapa»). Nel corso del 2013, Carlo De Benedetti, che conserva la presidenza del gruppo L’Espresso, aveva girato ai suoi tre figli il pacchetto di controllo dell’accomandita, pari al 70%. Rodolfo, Marco e Edoardo sono così diventati proprietari della totalità del capitale della società mentre Franca Bruna Segre resterà titolare dello 0,01%. Allora l’Ingegnere era rimasto in possesso solo dell’usufrutto su un pacchetto di 10 milioni di titoli (circa il 3%) di proprietà del figlio Edoardo. Usufrutto cui De Benedetti ha rinunciato proprio a fine luglio, completando così la successione generazionale nella proprietà del gruppo Cir-Cofide.
Anche a Novara, dove ha sede il gruppo De Agostini, le famiglie Boroli e Drago, cui fa capo il controllo del gruppo, hanno da tempo messo in atto un articolato meccanismo societario che, grazie le regole di governance dell’accomandita B&D Holding, consente, come nel caso degli Agnelli, di non frammentare le partecipazioni azionarie tra i vari rami della famiglia ma che allo stesso tempo ha permesso di affidare a Marco Drago i poteri necessari a guidare un gruppo che spazia dall’editoria alle assicurazioni (il gruppo è uno dei grandi azionisti delle Generali), dalla finanza ai giochi e a lotterie di GTech. Questo non significa che chi in famiglia abbia intenzione di separare i propri destini da quelli del gruppo non possa agevolmente farlo. Le regole interne alla B&D holding, già dal prossimo anno, consentiranno ai vari rami famigliari la possibilità di liquidare, in parte, la loro partecipazione. L’ultima fotografia della B&D, cui fa capo il controllo della holding De Agostini spa, vede i discendenti di Giuliana Boroli Drago al 34,6% con la famiglia di Marco Drago al 10,51%. Gli altri tre rami (Anna Boroli Drago, Adolfo Boroli e Achille Boroli) hanno quote comprese tra il 20% e il 22,7%. Nella holding al piano inferiore, invece, il ramo di Achille Boroli ha un pacchetto dell’10,43%, i discendenti di Adolfo l’8,59%, quelli di Anna Boroli Drago sono al 7,03%, mentre la famiglia di Marco Drago possiede solo lo 0,42% (il 68,23 è detenuto direttamente da B&D). Questo perché, già al momento del riassetto iniziale, all’interno della famiglia qualcuno, proprio per rendere più agevole un parziale disimpegno, aveva preferito rinunciare a parte delle azioni dell’accomandita ricevendo invece azioni della De Agostini spa, in modo tale da poter fare cassa quando nel 2015 i patti parasociali prevederanno questa possibilità.
Meno intricata, considerato il numero degli eredi coinvolti, la situazione dei fratelli Gian Marco e Massimo Moratti. Dopo la cessione al colosso dell’energia russo Rosneft del 13,7% di Saras da parte della vecchia accomandita di famiglia Angelo Moratti sapa (che ha così incassato 178 milioni), i due fratelli hanno avviato e completato la scissione della stessa. L’intero patrimonio messo assieme negli anni dal fondatore, inclusa la partecipazione residua nella Saras, è stata divisa a metà tra i due fratelli. Dalle ceneri della vecchia accomandita ne sono nate due nuove, una per ciascuno dei due rami familiari. Le due società hanno successivamente sottoscritto tra loro un patto di sindacato, che prevede l’esercizio congiunto dei diritti di voto in assemblea e vincoli sul trasferimento delle azioni Saras. Nessuna delle due società in accomandita potrà trasferire le azioni senza il consenso dell’altra. Ma il riassetto non si esaurisce qui. Sia Gian Marco sia Massimo hanno tenuto per loro solo una piccola quota della propria accomandita, mentre il grosso del capitale è stato suddiviso tra i figli. In particolare alla Massimo Moratti sapa, di cui l’ex presidente dell’Inter detiene solo lo 0,001% (la nuda proprietà della società è suddivisa infatti tra i due figli Angelo Mario e Giovanni) pur conservando l’usufruttuario su entrambe queste quote e quindi il diritto di voto, è stata recentemente girata la partecipazione di minoranza di circa il 30% che Massimo ancora deteneva nell’Inter dopo il passaggio del controllo all’indonesiano Erick Thohir.
L’istituto giuridico della società in accomandita è stato utilizzato anche in altri grandi gruppi industriali italiani. Lo ha fatto il presidente della Pirelli Marco Tronchetti Provera, ma anche i quattro fratelli Barilla, cui fa capo l’omonimo gruppo alimentare, hanno vincolate le rispettive partecipazione nell’azienda alla «Guido Maria Barilla & Fratelli», le cui quote paritetiche sono state a loro volta girate ad altrettante società in accomandita per ciascun ramo familiare.
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 6/9/2014