Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 6/9/2014, 6 settembre 2014
SEMBRA CHE NON CI SIA UNA ROTTA
[Intervista a Luca Ricolfi] –
Se questo governo rischia è sull’economia. Lo ripetono un po’ tutti gli osservatori, invocando manovre aggiuntive, talvolta quasi intimandole a Matteo Renzi. Ne abbiamo parlato con Luca Ricolfi, docente di Psicometria e Analisi dei dati all’Università di Torino, e commentatore autorevole.
Recentemente ha scritto su «Panorama» che la tassazione sulla casa è, dal 2012, il principale elemento di depressione dei consumi. Indirettamente, ovvio. Gli italiani non vedono alcuna luce in fondo al tunnel e Imu, Tasi e gli altri tributi contribuiscono a dar corpo a questo pensiero.
Domanda. Professore, secondo le sue analisi, negli ultimi due anni gli Italiani sono diventati più pessimisti. E neppure gli 80 euro renziani, da questo punto di vista, sembrano scalfire questo stato d’animo.
Risposta. La situazione è ancora più complessa. Non c’è solo la manovra sulla casa, ma è più in generale il clima di incertezza legislativa, a pesare. Si naviga a vista su tutto. Non è solo questione che i bonus fiscali sulle ristrutturazioni siano rinnovati o meno. C’è un aspetto macro: la politica degli annunci genera incertezza fra gli operatori economici e più il premier annuncia, senza dettagliare, più aumenta l’incertezza. Finché una provvedimento non finisce in Gazzetta Ufficiale, non se ne conosce esattamente il merito. Oppure cose negate fino all’altro ieri, improvvisamente si materializzano.
D. A che cosa si riferisce?
R. Al blocco dei salari nel pubblico impiego. Quando tutta la stampa ne scrisse, ad aprile, fu sommersa di smentite, sbeffeggiata dal governo. L’altro ieri abbiamo visto come sia andata a finire.
D. Però, professore, si ha l’impressione che questa incertezza non sia còlta dall’italiano medio, sia più una questione da addetti ai lavori...
R. Non lo so. Certo, che i test nelle università ci siano o non ci siano, forse non appassiona nessuno, però, tanto per stare alla casa, quando si approssimano le scadenze e non si sa quali aliquote saranno applicate per gli affitti, se ci sarà ancora il bonus per gli inquilini o il canone agevolato, ecco che magari a un po’ di Italiani la cosa interessa.
D. Non che l’incertezza fosse estranea agli esecutivi precedenti. Ricordo che, con Enrico Letta, a pochi giorni dai versamenti degli acconti Irpef, non si conosceva ancora la percentuale.
R. Beh, sulla casa il massimo, in effetti, è stato raggiungo sotto quel governo, per la diatriba, fra lo stesso premier Letta e Angelino Alfano, sulla necessità di abolire l’Imu sulla prima casa. Però l’«annuncite» di Renzi supera tutte quelle precedenti. È quasi sempre con un risvolto sinistro...
D. Addirittura...
R. Massì, quando i toni si fanno minacciosi, quando si usa il «ve la faremo pagare».
D. La polemica sui «soliti noti»....
R. Sì, il non andare a Cernobbio, cosa che andrebbe pure bene, fa parte di questo copione. Ma, d’altra parte, anche Renzi si è reso conto di questo fatto: il «passo dopo passo» significa che se i provvedimenti vengono annunciati uno per volta e magari quando sono sufficientemente delineati, è meglio.
D. Ma tornando al tema della casa, Renzi non potrebbe invertire la tendenza? Se, come lei dimostra, l’impatto sugli Italiani di quella tassazione è stato così negativo, provocando una depressione complessiva dei consumi, perché non intervenire?
R. Credo che su questo tema il danno ormai sia stato fatto. Il cervello degli Italiani, cioè, ha switchato: questo bene primario è passato da asset rassicurante a fardello inquietante. E lo switch, appunto, è irreversibile. Un’eventuale revisione, per essere efficace, dovrebbe essere assai decisa, del tipo non si paga Imu sulla prima casa, come fecero Silvio Berlusconi e, in parte, Romano Prodi. Ma sono assai scettico, anzi mi si danno per certe nuove tasse.
D. Del tipo, professore?
R. Un aumento pesante delle tasse di successione e donazione e una riduzione delle franchigie: provvedimento demenziale, perché modestissimo dal punto di vista macroeconomico, ma di impatto psicologicamente devastante. Non serve a niente se non a rassicurare una certa sinistra-sinistra, che lo lega, evidentemente, agli affari di B, cui teme si voglia fare un favore.
D. Ma insomma, non si può dare un buon consiglio al premier?
R. Se Renzi volesse fare una cosa buona e a costo zero dovrebbe intervenire sugli estimi catastali.
D. In che modo?
R. Garantendo che la revisione sarà a parità di gettito, e quindi abbassando molte aliquote, e graduale nel tempo. Ma facciamo un caso pratico: lei ha una casa da un milione di euro con un valore catastale di 100mila: l’acquirente potenziale le obietterà che però lui, successivamente, quando gli estimi si avvicineranno al valore di mercato, si troverà a pagare un sacco di Imu.
D. E quindi?
R. Renzi potrebbe diluire i tempi, mandando a regime la riforma in cinque, meglio in 10 anni. E poi, come dicevo prima, reintrodurre l’esenzione totale sulla prima casa, che non è più un indicatore dello status di una famiglia, un indice reddituale: uno può avere una casa di valore e nemmeno uno spicciolo in tasca, un altro due stanze e un milione di Bot in banca, che tra l’altro non vanno neppure nella dichiarazione Irpef. Insomma, usare la casa per differenziare è una falsa idea di giustizia fiscale.
D. Perché?
R. Oggi la situazione è più complessa di un tempo. Ci sono lavoratori che han dovuto restituire il bonus degli 80 euro, perché la parte di lavoro dipendente che rientrava in quei limiti di reddito era solo una delle fonti di guadagno. Un’azione del genere, sulla casa, avrebbe un grande valore psicologico e di coesione sociale.
D. Senta, noi stiamo a ragionare di Renzi, ma questa idea di reintrodurre l’Imu, di fatto, l’ha cavalcata Mario Monti anche se la tassa, di per sé, era già stata prevista dal governo Berlusconi. Perché un economista di vaglia, come il senatore, ha commesso un simile errore?
R. Per varie ragioni, a mio avviso.
D. Spieghiamole.
R. La prima è che Monti è molto sopravvalutato.
D. Bingo!
R. Le spiego: non è un grande economista, è uno normale, e se non occupasse certe posizioni, in Italia e all’Estero, non sarebbe preso così tanto sul serio.
D. Ri-bingo, mi scusi! Quindi, da economista, avrebbe sfruttato la rendita di posizione?
R. Guardi che l’hanno detto anche Piero Ostellino e Giovanni Sartori. Monti non mi pare abbia una competenza economica raffinata e puntale migliore di altri. Glielo dico francamente, secondo me Pier Carlo Padoan vale molto più di Monti
D. Tutte le attese che suscitò erano illusioni?
R. Non divenne premier uno Joseph Stiglitz o un Paul Krugman, ma un buon professore di economia monetaria, non il genio dell’economia. Le confesso che sono fra gli ingenui che lo hanno capito dopo: ho sempre pensato che, da sinistra, si potesse votarlo. L’ho sopravvalutato anche io. Ma ci sono altre cause.
D. Prego...
R. Monti aderisce a una delle tre grandi teorie sulla crescita sulle quali si dividono gli economisti. Semplifichiamo: ci sono quelli che pensano che la crescita dipenda dagli investimenti in istruzione e ricerca, e stanno a sinistra; quelli che pensano che sia legata alla riduzione della pressione fiscale sulle imprese, e son quelli di destra; e poi ci sono quelli istituzionalisti e liberali, come Monti appunto. Questi ultimi pensano che la crescita sia correlata a quanto siano buone ed efficienti le istituzioni, quelle economiche in primis. Sovente, infatti, Monti parlò di riforme di istituzioni economiche come il mercato del lavoro, la giustizia civile e la burocrazia.
D. E non andava bene?
R. Questa teoria funziona bene quando si considerano tutti i Paesi, o almeno 100-150 stati, e non solo i 34 che l’Ocse indica come sviluppati. Se nei modelli matematici mettiamo solo questi ultimi, ecco che questi fattori diventano molto meno incidenti. Il punto, per Monti, non erano tanto le tasse né la bontà del capitale umano, cui puntano le altre teorie, ma l’efficienze delle istituzioni. E c’è dell’altro.
D. Continuiamo...
R. I suoi interventi non hanno funzionato, perché Monti aderisce a tutti i luoghi comuni delle autorità europee e li ha adottati acriticamente. Soprattutto quello secondo cui bisogna tassare patrimoni e consumi e ridurre il cuneo fiscale, mentre non c’è mai, invece, la priorità di ridurre le imposte societarie. Una volta lo credevo anche io e opposi questi argomenti a Renato Brunetta, in una discussione, salvo poi, fare autocritica pubblica, dandogli ragione.
D. Comportamento raro nel dibattito pubblico....
R. Io invece ne sono convinto: meglio ammettere un errore che insistervi. Monti, a rimorchio della vulgata europea, ha pensato che i mercati reagissero al deficit pubblico. Sbagliato. Proprio nel periodo del suo governo, studiando l’equazione dello spread, mi resi conto come dipendesse pochissimo dal deficit e tanto dalla quota di debito pubblico collocato all’Estero. Ma la cosa che più conta e influisce, oggi come allora, sono le prospettive di crescita. E, allora, se nel medio periodo, si prevedeva lo 2-3% per Gran Bretagna e Spagna e Germania, un punto per la Francia e per noi la stagnazione, i mercati ne tenevano conto.
D. Qui sta l’errore di Monti...
R. Ha creduto che quella tassazione sulla casa non facesse male alla crescita e ha pensato che i mercati guardassero soprattutto al deficit e alla sua riduzione. Su queste credenze erronee ha fatto una sciocchezza. Una sciocchezza che è anche figlia di una visione ragionieristica della politica economica che, peraltro, ha accumunato molti governi.
D. Le Ragioneria generale dello Stato conta sempre. Ricordiamo i duelli rusticani di Giulio Tremonti, e anche Renzi ne ha già assaggiata la durezza.
R. I governi sono succubi della Ragioneria che vuole coperture e simulazioni di effetti certi, anche se, in realtà, «certi» non lo sono mai. Se si dice di alzare una certa aliquota di 10 punti, può sembrare tutto certo ma, in realtà, sul gettito possono incidere altre variabili. Si adotta cioè un criterio statico e non dinamico. Con Monti ciò ha portato a un doppio errore: l’effetto sullo spread, che a un certo punto, a partire da marzo 2012, risalì clamorosamente, e sui consumi.
D. Quindi il Professore, che doveva salvare l’Italia, non fu la medicina giusta. E si potrebbe calcolare l’impatto economico di quelle valutazioni sbagliate?
R. L’impatto sullo spread fu, secondo i miei calcoli, di almeno 140 punti base.
D. Ah, e dire che per gli spread cacciammo un governo.
R. Monti migliorò all’inizio la situazione solo per il fatto di non essere Berlusconi e i mercati gli credettero. Poi dalle tasse, dalle mancate liberalizzazioni e, come dicevamo, dalla casa, i mercati capirono che le prospettive erano ridotte.
D. E in fatto di Pil, l’effetto Monti quale fu?
R. Facendo una stima qualitativa, si potrebbe dire almeno un punto di Pil, un effetto di depressione sui consumi per 20-25 miliardi. L’altro punto perso, in quel periodo, è da legare alla congiuntura.
D. Torniamo a Renzi. In agosto si era parlato della volontà del premier di dotarsi di una cabina di regia economica, con Padoan, Yoram Gutgeld, consigliere in carica, Filippo Taddei, responsabile nel Pd, ma anche i bocconiani Guido Tabellini e Tommaso Nannicini. Ma questo organismo non c’è ancora. Forse è di nuovo Renzi che non si fida?
D. Non ne so nulla. Ma, capisco che non si fidi: i tecnici non hanno dato grande prova di sé, come abbiamo ricordato ora per Monti. Quattro economisti, sovente, hanno quattro idee diverse. Lui non ascolta molto, secondo me, salvo Padoan. Il limite che frena Renzi, e limita i danni che può arrecare al Paese, sta nella prudenza e nella saggezza di quel ministro. Carlo Cottarelli si può dimettere e tornare al Fondo monetario internazionale, ma Padoan no: i mercati la prenderebbero malissimo. E questo il premier lo sa bene.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 6/9/2014