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 2014  settembre 06 Sabato calendario

PUTIN, L’OCCIDENTE E LA LEGGE DEL PIÙ FORTE

Bandito dalle assise internazionali, Vladimir Putin troneggia onnipresente e implacabile fuori dai vertici ufficiali, Nato compreso. E li condiziona con grande disinvoltura.
La sua strategia in Ucraina si dispiega con tatticismo perfetto: invasioni e annessioni prima dissimulate, poi fatte ma regolarmente negate. Tregue a orologeria, tutte da verificare nella tenuta, per disarmare politicamente gli interlocutori euro-americani che in fondo non desidererebbero altro che stare alla finestra, spendendosi al minimo. Qualunque cosa succeda nelle tante crisi oltre confine. A Est come a Sud dell’Alleanza Atlantica.
Le sanzioni economiche costano a chi le impone, quando i rapporti di interdipendenza economica e energetica sono quelli che sono oggi tra Europa e Russia e quando l’Unione si dibatte tra recessione e deflazione. Costano meno agli Stati Uniti, che infatti non solo non si tirano indietro ma pretenderebbero di più dai partner riluttanti.
E così Mosca, che pure si lecca qualche ferita da embargo e rischia di pagare in futuro un prezzo ancora più alto se non limiterà le sue ambizioni, si destreggia spregiudicata tra le divisioni intra-europee e le tensioni transatlantiche.
Putin, che conosce bene i suoi antagonisti e tutte le loro più riposte debolezze, gioca al gatto con il topo puntando alla politica dei fatti compiuti. È già successo nel 2008 con la Georgia e nel marzo scorso con l’annessione della Crimea. Succederà con l’Ucraina che quasi certamente uscirà dalla guerra neutralizzata e più o meno amputata delle province orientali, secessioniste e filo-russe.
Naturalmente ieri a Newport, in Galles, il vertice della Nato ha tentato di smentire questo scenario annunciando la creazione di una forza di rapido intervento di 5mila uomini e l’apertura di 5 basi nei Paesi baltici, in Polonia e Romania: in breve rafforzando il fianco Est e la garanzia di mutua difesa tra i membri dell’Alleanza (articolo 5) e respingendo l’ipotesi di veti esterni su futuri allargamenti (leggi Ucraina).
Ha fatto la voce grossa, ha preso decisioni concrete e dissuasive, almeno nelle intenzioni, suggellate qualche ora dopo dall’annuncio, mentre sul terreno continuavano i combattimenti, del terzo cessate il fuoco della serie cominciata in aprile dopo l’annessione della Crimea. Di fatto il summit di Newport si è limitato a chiudere le stalle dopo che i buoi erano scappati: a contenere i rischi e i danni di destabilizzazioni future dentro ai confini dell’Alleanza più esposti a eventuali rivendicazioni russe. Fuori, quello che è stato è stato: malgrado tante belle parole, Ucraina ed ex-satelliti dell’ex-Urss restano condannati a un’eterna sovranità limitata. Chi invece sta già nella Nato, dalla Polonia ai Baltici, potrà contare sullo scudo alleato.
Del resto, sia pure al momento congelato, il Consiglio Nato-Russia non viene affatto rimesso in discussione, al contrario. Il dialogo continua. E le stesse sanzioni economiche, qualora la tregua tenesse, saranno sospese, ha insistito il cancelliere tedesco Angela Merkel. Quando le contorsioni della diplomazia non funzionano ma è la legge del più forte, o del più spregiudicato, a violare principi e leggi internazionali riscrivendo i confini tra gli Stati, quando le logiche della guerra fredda risorgono in un mondo globale dagli equilibri liquidi e instabili, non restano che gli esercizi di Realpolitik, più o meno riusciti. Le decisioni di rimessa al traino degli eventi, come l’altra scaturita dal summit di ieri: una task force multinazionale anti-Isis per tagliare i finanziamenti e sconfiggere il Califfato degli orrori in Irak e in tutta la regione. Con l’America di Barak Obama "europeizzata" e rinunciataria, priva di una chiara strategia internazionale e in balia dei vecchi istinti isolazionisti, con l’Europa eternamente divisa, neutralizzata da se stessa ancor più che da antagonisti minacciosi, il vertice della Nato non poteva che limitarsi a rappezzare alla meno peggio una tela strappata. Sullo sfondo resta intatto il dramma dell’Occidente disarmato, culturalmente prima e più che militarmente, di fronte ai rischi globali che minacciano la pace su troppi teatri regionali a volte tra loro lontani ma tutti legati da rigurgiti e revanscismi anti-occidentali.
Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore 6/9/2014