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 2014  settembre 04 Giovedì calendario

CAPITALISMO

La strigliata di Sergio Marchionne e i rimbrotti di Giorgio Squinzi, le tirate d’orecchi di Diego Della Valle, la delusione di Alessandro Benetton, le perplessità di Alberto Nagel: i protagonisti dell’industria e della finanza che avevano scommesso sull’effetto scossa di Matteo Renzi, ora siedono sull’Aventino. È accaduto più volte nella storia patria che il capitale abbia scelto il proprio campione politico e poi lo abbia mollato. La differenza è che oggi, tra apolidi e fuggitivi, magnati in arrivo dall’altro mondo e multinazionali tascabili, vecchi salotti e uno Stato riluttante, il capitalismo italiano è uno specchio rotto i cui frammenti rimandano immagini incoerenti.
Negli Anni 70, Gianni Agnelli, detto l’Avvocato, salì in plancia di comando, fino a presiedere la Confindustria. Combinò pasticci come raccordo con Luciano Lama per la scala mobile dei salari, tutti però gli baciavano la pantofola. I ruggenti Anni 80 hanno visto entrare in campo i Condottieri, da Cario De Benedetti a Silvio Berlusconi, dai Benetton a Raul Cardini; è stata l’ultima generazione di imprenditori in grado di cambiare l’agenda politica del Paese. Il decennio 90 ha messo al centro le banche, con il dualismo crescente tra Enrico Cuccia alla guida della laica Mediobanca e Giovanni Bazoli campione della finanza cattolica. Dopo l’ingresso nell’euro, già prima della Grande Recessione, il sistema è stato scosso da una serie ininterrotta di terremoti e sono scomparsi uno dopo l’altro i nomi che hanno fatto la storia. I frantumi di oggi vengono da lì, ma anche da una vera e propria crisi d’identità.
C’è un capitalismo che potremmo chiamare apolide, quello della Fiat, di John Elkann e Marchionne, con la "testa in America, il portafoglio a Londra e il cuore ancora a Torino. La stessa strada imboccata, seguendo sentieri diversi, dalle famiglie Drago e Boroli che guidano la De Agostini con Gtech, numero uno nel mondo dei giochi. Chi ha sciolto gli ormeggi, ha trovato risola del tesoro. Almeno non s’è arreso, come Pietro Loro Piana che ha ceduto alle lusinghe di Lvmh o i Merloni che hanno venduto la Ariston all’americana Whirlpool.
Il capitale non ammette vuoti ed ecco irrompere i cavalieri della globalizzazione. Arrivano gli oligarchi russi come Mikhail Fridman, patron di Wind, o Aleksej Mordasov (Severstal) che ha preso la Lucchini; mentre Rosneft, compagnia petrolifera del Cremlino, possiede il 13 per cento della Pirelli. Gli indiani scelgono l’acdaio (Lakshmi Mittal, si interessa all’Ilva e Naveen Jindal ha acquistato Piombino). I cinesi pacchetti strategici come l’Eni e l’Enel. Non assomigliano ai manchesteriani della prima rivoluzione industriale e nemmeno ai robber barons, i «baroni ladroni», dell’Ottocento americano (Camegie, Astor, Rockefeller, Vanderbilt, J.P.Morgan). Sembrano centauri metà pubblici metà privati; in ogni caso i nuovi rampanti sono loro.
Eppure l’Italia resta un paese manifatturiero, il secondo d’Europa; cedere ancora terreno significa impoverirsi per sempre. Esiste per fortuna una imprenditoria che si rinnova e diventa internazionale senza troncare le proprie radici, ma anch’essa vive un dilemma esistenziale. L’esempio più recente è Leonardo Del Vecchio che ha ripreso il pieno controllo di Luxottica licenziando il top manager Andrea Guerra, alla vigilia di scelte vitali: la propria successione e nuove alleanze. A differenza dalle grandi famiglie, questo «quarto capitalismo» non ha un sostegno tipo Mediobanca. È vero, il mondo dei salotti buoni si reggeva su intrecci perversi che si stanno sciogliendo; e ciò significa apertura, concorrenza, mercato. Come si fa, però, a nuotare da soli nell’oceano globale? Bazoli, banchiere e politico, forse l’ultimo della specie, continua a difendere il capitalismo di relazione paragonandolo a una rete di solidarietà. Mentre torna la nostalgia interventista e va di moda il libro della ’economista italo-inglese Mariana Mazzucato: Lo stato imprenditore. Ma, anche volendo, chi può riportarlo in vita?
L’Eni, l’Enel, la Finmeccanica, per non parlare delle Poste e delle Ferrovie, sono guidate da uomini d’azienda, non di sistema. C’è la Cassa depositi e prestiti, ancora in cerca d’identità. Chi vuole che resti il portafoglio del Tesoro grazie alla raccolta postale, chi pensa di trasformarla in ciambella di salvataggio per imprese con l’acqua alla gola e chi in una banca di stato, simile alla tedesca Kfw. L’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, cammina sulle uova perché nessuno, ne Renzi ne il ministro dell’economia Pier Cario Padoan, gli ha fornito la rotta.
Che un governo possa guidare il capitale ormai non lo crede nemmeno un paleomarxista, eppure i tedeschi vengono protetti dal complesso bancario-industriale; i francesi dallo stato colbertista; gli spagnoli dall’Unione Europea (dai fondi strutturali ai salvataggi bancari). E gli italiani? Ancora una volta procedono in ordine sparso, mentre all’orizzonte si vedono già i dintorni di Caporetto.
Stefano Cingolani