VARIE 5/9/2014, 5 settembre 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - LA NATO E LA TREGUA TRA PUTIN E UCRAINA
REPUBBLICA.IT
Nel secondo giorno del vertice Nato a Newport, in Galles, all’ordine del giorno la crisi in Iraq e la crescente minaccia dello Stato Islamico, dopo la decapitazione di due giornalisti americani. Il presidente americano Obama e il premier britannico Cameron cercano alleati per una coalizione che fronteggi il gruppo jihadista che vuole creare un Califfato a cavallo di Siria e Iraq e in prospettiva in tutto il mondo musulmano. Obama a tal proposito ha avuto a Newport due incontri bilaterali con l’Arabia Saudita e la Turchia.
Obama nel primo giorno di un vertice che potrebbe avere una portata storica nelle relazioni euroatlantiche ha sferzato gli europei chiedendo uno sforzo maggiore, anche militare, perché si adeguino alle "nuove missioni della Nato sui fronti vicini, Ucraina e Iraq-Siria, dove la sicurezza dell’Occidente è minacciata".
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Alle Nazioni Unite a New York l’ambasciatore Samantha Power ha espresso la preoccupazione che l’Is possa entrare in possesso di armi chimiche ancora non distrutte dal regime siriano di Bashar Assad. "Certo, se sono rimaste armi chimiche in Siria c’è il rischio che cadano nelle mani dello Stato Islamico, e possiamo solo immaginare cosa potrebbe fare un’organizzazione del genere con armi di quel tipo", ha affermato Power.
Ma il timore maggiore per Obama e Cameron è l’alto numero di jihadisti con passaporto americano o britannico, ma anche di molti paesi europei, che sono andati a combattere con l’Is e che potrebbero compiere attentati nei paesi occidentali.
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A Washington la tensione è altissima anche in vista del tredicesimo anniversario dell’attacco dell’11 settembre. In un video al Zawahiri, il successore di Osama bin Laden alla testa di al Qaeda, ha annunciato la nascita di un ramo indiano dell’organizzazione terroristica, per rilanciare l’organizzazione in difficoltà, che ha perso la leadership nella galassia jihadista, dove la crescita dell’Is sta provocando le gelosie di altri gruppi sempre più alla ricerca di "visibilità" attraverso azioni eclatanti.
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In Galles c’è attesa per la firma di un cessate il fuoco in Ucraina, annunciato dal presidente Poroshenko. Obama ha chiesto uno sforzo maggiore da parte degli Alleati contro la Russia di Putin. Gli Stati Uniti hanno pronto un nuovo pacchetto di sanzioni, militari, economiche e diplomatiche contro Mosca. Gli europei frenano nella speranza che l’annuncio del cessate il fuoco non sia un nuovo bluff del Cremlino. Anche a Bruxelles comunque è pronto un altro pacchetto di sanzioni orientate a colpire più duramente il ’cerchio magico’ di Putin. Si discute, tra l’altro, se inserire nella lista delle personalità cui congelare i beni anche il ministro della Difesa russo.
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NEWPORT (GALLES) - Resta teso il rapporto tra la Nato e la Russia. I leader dell’Alleanza atlantica hanno approvato la formazione di una nuova forza di risposta rapida per contrastare eventuali minacce ad alleati, con un chiaro riferimento all’atteggiamento di Mosca nella vicenda Ucraina. Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha annunciato che sarà mantenuta una "presenza continua" nell’Europa dell’est. La nuova struttura sarà un’unità militare permanentemente in estrema allerta in grado di entare in azione subito. Inoltre saranno istituite 5 basi-deposito distribute ai ’confini’ con la Russia nei paesi baltici, in Polonia e Romania. Nei giorni scorsi Rasmussen aveva evocato una "forza capace di viaggiare leggera e colpire duro", una struttura in grado di "reagire in tempi rapidissimi, con tempi d’avviso davvero minimi". Un atto necessario per il cancelliere tedesco, Angela Merkel perchè "la Nato rispetta gli accordi presi con Mosca e al Memorandum di Budapest, ma la Russia ne ha violato i principi in più punti, e dunque l’articolo 5, la disponibilità di essere pronti gli uni per gli altri, ha assunto maggior significato". Rasmussen ha assicurato però che, nonostante le "gravi violazioni" all’atto fondativo commesse da Mosca, l’Alleanza atlantica non ha intenzione di uscire dal consiglio Nato-Russia.
Il presidente polacco Bronislaw Komorowski ha preannunciato che la nuova forza, di stanza con contingenti a rotazione in Polonia, "sarà formata da circa 5.000 soldati". C’è già la disponibilità del premier britannico, David Cameron a contribuire con l’invio di 3.500 uomini: "Questa nuova forza - ha precisato il premier - sarà in grado di schierarsi ovunque nel mondo dai 2 ai 5 giorni".
La replica di Mosca - La risposta russa alle decisioni del vertice è arrivata nel giro di un’ora. Per Mosca, la Nato ha usato la crisi ucraina solo "come pretesto per attuare piani concepiti da tempo" e quanto dichiarato sulla situazione ucraina e annunciato in merito a esercitazioni congiunte in Ucraina non farà che "accrescere la tensione" e "minacciare" i progressi nel processo di pace. La dichiarazione viene dal ministero degli esteri russo.
Molto dipenderà dal rispetto dell’accordo della tregua firmato oggi tra Ucraina e insorti filo russi. Si definisce "speranzoso ma scettico" il presidente Usa, Barack Obama: "Al cessate il fuoco devono seguire i fatti. L’aggressione della Russia è una minaccia per l’Europa libera" ha affermato il presidente Usa, Barack Obama, sottolineando che se Mosca continuerà ad alimentare le tensioni ci saranno nuove sanzioni.
Fronte Is. Continua il lavoro degli Usa per creare una coalizione pronta a combattare la minaccia degli Jihadisti sunniti dello Stato Islamico. Il segretario di stato John Kerry, al summit Nato di Newport in Galles, è stato chiarissimo: bisogna formare una "coalizione", la più ampia possibile, "ovviamente con una linea rossa invalicabile per tutti noi: escludere l’impegno di truppe di terra". Per Kerry bisogna attaccare l’Is "in modo da impedire loro di conquistare altro terreno, e rafforzare le forze di sicurezza irachene e gli altri nella regione (curdi in primis, ndr) che sono pronti a combattere contro di loro, ma senza impiegare le nostre truppe di terra", ha detto incontrando gli omologhi di Gran Bretagna, Francia, Germania, Canada, Australia, Turchia, Italia, Polonia e Danimarca.
Un altro tema sul tavolo di Newport è stato quello sulle spese per la difesa dei singoli stati. Obama e Cameron stanno facendo pressioni sui partner della Nato affinché ogni paese membro rispetti l’impegno di spendere per la difesa un ammontare pari al 2% del proprio Pil. Al momento solo quattro Paesi della Nato rispettano questa soglia, cioè Usa, Regno Unito, Grecia ed Estonia.
Obama nel primo giorno di un vertice ha sferzato gli europei chiedendo uno sforzo maggiore, anche militare, perché si adeguino alle "nuove missioni della Nato sui fronti vicini, Ucraina e Iraq-Siria, dove la sicurezza dell’Occidente è minacciata". La preoccupazione maggiore, condivisa da Cameron, è per l’alto numero di jihadisti con passaporto americano o britannico, ma anche di molti paesi europei, che sono andati a combattere per il califfato e che potrebbero compiere attentati nei paesi occidentali. "L’Isis è una grave minaccia per tutti e nella Nato c’è una grande convinzione che è l’ora di agire per indebolire e distruggere l’Isis", ha detto Obama.
Renzi. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi al suo primo summit Nato ha ricalcato la linea già espressa dalla Merkel: "Se non c’è l’accordo, le sanzioni facciano il loro corso. Ma lasciamo aperto il canale del dialogo". Il premier parla di ore complicate: "Voglio sperare che Putin abbia il desiderio di porre realmente fine alle polemiche e ai violenti scontri, alle invasioni di sovranità che ci sono state. Oggi la partita è in mano alla Russia e spero che possa prevalere la saggezza, anche perché avremo bisogno di una Russia pienamente integrata nella comunità internazionale". Smentisce le voci su veto italiano sulle sanzioni per ragioni economiche e spiega che è "pronto un pacchetto di misure corpose contro la Russia". All’invito arrivato da Washington e Londra di aumentare le voci in bilancio destinate alla difesa risponde con una proposta: "Se l’Europa considera la spesa per la difesa "strategica" allora andrebbe tolta dal Patto di stabilità". E sulla questione Is, Renzi annuncia che l’Italia non si tirerà indietro e farà parte della forza di intervento, prevista oggi a Newport.
DAGOSPIA
Lo riferiscono media russi e ucraini. Secondo Interfax, i rappresentanti di Kiev e delle due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk hanno firmato un protocollo di 14 punti per il cessate il fuoco dalle 18 ora di Kiev (le 17 in Italia). L’atto ha suggellato la riunione di oggi a Minsk del Gruppo di Contatto sull’Ucraina che comprende - oltre ai rappresentanti di Kiev e dei ribelli - la Russia e l’Osce.
«A Minsk hanno firmato il protocollo per il cessate il fuoco», lo ha twittato il presidente ucraino Poroshenko confermando che entrerà in vigore da oggi. Petro Poroshenko, ha ordinato all’esercito di cessare le ostilità a partire dalle 15.00 Gmt e ha affermato che l’Ucraina ha siglato «un protocollo preliminare» per una tregua con le forze separatiste dei ribelli.
Il presidente ucraino ha chiesto che l’autorità dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) controlli il rispetto del ’cessate-il-fuocò e che l’accordo includa il rilascio di prigionieri. Secondo l’agenzia Interfax i separatisti ucraini avrebbero ordinato ai combattenti di fermare le azioni militari dopo l’accordo sul cessate-il-fuoco.
EZIO MAURO SU REP
La terza Nato nasce in Galles dopo la prima, figlia della Guerra Fredda e la seconda dell’età di mezzo, quando con la caduta del Muro sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento. La guerra di Crimea riporta nel cuore d’Europa, dove sono nate le due guerre mondiali, truppe, missili, carri armati, morti, feriti, aerei abbattuti. Ritorniamo a guardare i nostri cieli e le nostre mappe con quella stessa inquietudine per il futuro dei nostri figli che i nostri padri avevano ben conosciuto, e noi non ancora. E dagli arsenali della politica, della cultura, della diplomazia e della strategia militare rispuntano insieme con vecchie paure i concetti dimenticati delle "zone d’influenza", dei "blocchi", delle "esercitazioni", dei Muri, della frontiera europea tra Occidente e Oriente, con l’Ovest che ritrova il suo Est e il Cremlino fisso nuovamente nella parte del "nemico ereditario".
Misuriamo con uguale inquietudine gli sconfinamenti ucraini di Putin e la sua popolarità crescente in patria, nonostante le sanzioni. Scopriamo quel che dovevamo sapere, e cioè che l’anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile, dunque non è una creatura ideologica del sovietismo ma lo precede, lo accompagna e gli sopravvive. Anzi: dopo gli anni di interregno, con il pugno di ferro interno e la spartizione oligarchica del bottino di Stato, l’Oriente russo torna a marcare un’identità forte, una sovranità territoriale e politica che mentre si riprende la Crimea non nasconde velleità su Kiev e tentazioni sui Paesi baltici, come se Mosca si ribellasse alla storia e alla geografia d’inizio secolo, contestandole e impugnandole davanti alla sua ossessione ritrovata: l’Occidente.
Nello stesso momento il Califfato islamista appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell’11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l’inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l’invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all’attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, l’uccisione di Bin Laden, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l’Is, lo Stato Islamico, una partita aperta per l’egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell’"isolazionismo" che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana "i soldati della croce", con i loro "piedi impuri" sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l’Occidente.
Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l’America, delimiti l’Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli? La risposta della politica è inconcludente, quella della diplomazia non va oltre le sanzioni. Resta la Nato, il vertice del Galles, la polemica sulle spese, il progetto di esercito europeo. Ma la domanda si ripropone oltre la meccanica militare: la Nato può funzionare e avere un significato da protagonista delle due crisi senza una soggettività politica chiara dell’Occidente? In sostanza, il nemico (o meglio: colui che ci elegge a nemico) ha una nozione di noi più chiara di quella che noi abbiamo di noi stessi.
Per tutto il breve spazio "di pace" che va dalla caduta del Muro all’11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall’avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell’Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell’Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un’idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov’è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino - e non solo dell’alleanza - con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l’Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un’alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.
Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l’11 settembre) che non è l’America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l’abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l’oggetto dell’attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere - sia pur riconoscendo la sua legittimità - e coltiviamo la libertà del dubbio.
Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l’Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?
La sfida è anche all’interno del nostro mondo. Perché nell’allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell’Occidente c’è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all’interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant’anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?
Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza - il nostro esercizio soggettivo di diritti - è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine - la Ue - sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un’autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell’Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.
La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l’elezione di Obama aveva dispiegato tutta l’energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell’ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l’unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all’Islam, porta l’America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un’epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all’ombra delle crisi che investono direttamente Washington.
È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell’epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un’ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un’identità. Per questo l’Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l’ayatollah Khomeini scrisse all’ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: "È chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie".