Marco Ventura, Panorama 4/9/2014, 4 settembre 2014
SE C’È GUERRA NON C’È BUSINESS
Ma quanto ci costano le guerre, quanto ci costano le primavere arabe e la guerra in Ucraina? Un mare di soldi che i nostri imprenditori, soprattutto piccoli e medi, hanno perso e perdono a dispetto del coraggio col quale insistono a lavorare anche nelle zone più calde come la Libia. I cambi di clima in Libia, Tunisia ed Egitto ci sono costati, con un calcolo sommario e per difetto, ben 2 miliardi e 623 milioni in tre anni (ma molti di più se nel calcolo immaginiamo la crescita che ci sarebbe stata dal 2011 e non semplicemente il riferimento al dato del 2010). Forte la diminuzione dell’export italiano anche verso la Russia e l’Ucraina nel rinnovato clima da «guerra fredda» con l’Europa. In costante crescita dal 2010, tra gennaio e aprile 2014 l’export italiano verso Kiev è calato di 138 milioni rispetto allo stesso trimestre 2013 (da 568 a 430 milioni, secondo i dati dell’Istituto per il commercio estero). Più pesante il bilancio con la Russia, che dal 2012 al 2013 aveva generato esportazioni per quasi 1 miliardo di euro in più, mentre solo nei primi tre mesi del 2014 c’è stato un calo di 170 milioni rispetto allo stesso periodo del 2013 e precisamente da 3 miliardi e 288 milioni a 3 miliardi e 118 milioni.
Cifre iperboliche, contenute solo dall’intraprendenza italiana che non si arrende neppure di fronte alle bombe. Del resto il fenomeno è planetario, se nel 2013 l’impatto economico della violenza, e non solo della guerra, sull’economia mondiale è stato di 9.800 miliardi di dollari, pari all’11,3 per cento del Pil globale, come spiega la direttrice dell’Institute for Economics and Peace (Iep) con base a Sydney, Claudia Schippa. «Dopo la Seconda guerra mondiale i livelli di pace erano costantemente migliorati, mentre dal 2008 abbiamo registrato un calo del 5 per cento. Inoltre è cresciuto moltissimo il livello di terrorismo, che genera paura e sfiducia. Prima del 2001 i morti per terrorismo erano 2.500 in media l’anno. Nel 2013, circa 18 mila».
Il paese-simbolo è la Libia. Il 31 agosto 2010, quando Muammar Gheddafi fu accolto a Roma, sul «piatto» c’era un programma di 1.700 chilometri di autostrade lungo la costa libica che valeva 5 miliardi di euro per le imprese italiane. L’Eni aveva annunciato investimenti per 25 miliardi di dollari. Il preaccordo siglato da Finmeccanica con i fondi sovrani libici per joint-venture in vari settori valeva 20 miliardi. E invece dal 2010 al 2011 il valore dell’export è crollato da 2,7 miliardi a 610 milioni. Le potenzialità della Libia e il coraggio dei nostri imprenditori hanno fatto sì che nel 2012 fossimo già tornati a 2,4 miliardi, un record in valore assoluto di oltre 2,8 miliardi. Ma col precipitare della situazione c’è poco da aspettarsi per il 2014.
Accanto alle spine ci sono le rose. Pier Luigi D’Agata, direttore generale di Assafrica & Mediterraneo (l’associazione delle imprese che opera in quell’area), spiega che con le primavere arabe c’è stato «un ricambio delle classi dirigenti che apre nuove opportunità, perché ha rotto rapporti consolidati con molte aziende non italiane. C’è stata e c’è quindi la possibilità di nuovi accordi e commesse. Se in Libia la situazione è più difficile, la stabilizzazione in Tunisia ha generato una presenza di imprese italiane superiore all’anno scorso». Spiega ancora D’Agata: «Gli italiani hanno il pregio di non mollare, e questo paga. Paradossalmente, la situazione oggi meno rosea è in Egitto: l’Italia sta recuperando il volume di export precedente alla primavera araba, il totale è stato infatti nel 2013 di oltre 2,8 miliardi di euro rispetto ai circa 2,9 nel 2010, ma nei primi quattro mesi del 2014 la dinamica ha fatto registrare un segno negativo del 9,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso».
Se in Libia il problema è costituito dai cantieri fermi che hanno prodotto contenziosi, sequestri e danni, Tripoli resta però un target fondamentale per l’Italia. Così come l’Egitto. «Tutto il Mediterraneo va seguito con molta attenzione dalle nostre piccole e medie imprese, anche visti i problemi che si profilano in altri teatri», conclude D’Agata. Vedi Russia e Ucraina.