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 2014  settembre 05 Venerdì calendario

COSÌ PORTO FIGHT CLUB TRA MARITO E MOGLIE

[Intervista a David Fincher] –
Los angeles. David Fincher è altissimo e dinoccolato. Potrebbe sembrare un giocatore di basket, in jeans e scarpe da ginnastica, se non fosse per barba e capelli grigi che in qualche modo fanno pensare a un orso grizzly. Amabile, però. Per niente feroce, nonostante la fama di perfezionista che si porta dietro: uno che ripete ossessivamente i ciak e non è mai soddisfatto, ma che è anche capace di grande umanità e generosità con i suoi attori.
È un regista di culto dai tempi di Fight Club e Seven e la sua filmografia è lunga quanto eterogena (da Alien3 a Il curioso caso di Benjamin Button, da The Social Network a The Girl With The Dragon Tattoo, remake americano di Uomini che odiano le donne), ma ha anche firmato i video di Madonna, Michael Jackson, Sting, Aerosmith, Rolling Stones, Billy Idol, oltre a una caterva di spot pubblicitari per aziende spesso in aperta concorrenza: vedi Coca Cola e Pepsi o Heineken e Budweiser.
L’ultimo prodotto del suo personalissimo stile – montaggio serrato che alterna stacchi marcati a riprese fluide e avvolgenti, titoli di coda spesso filmati come diapositive – è L’amore bugiardo, adattamento del bestseller Gone Girl di Gillian Flynn (in Italia pubblicato da Rizzoli), che uscirà nelle nostre sale il 2 ottobre. La campagna orchestrata per lanciare questo torbido thriller psicologico è un ottimo esempio di guerrilla marketing: manifesti cinicamente intitolati «Happy Anniversary» dove campeggiano oggetti da scena del crimine; due trailer molto espliciti e una live website, findingAmy.com, trasportata dalle pagine del libro al web in tempo reale. La storia è quella di un matrimonio andato a male, vivisezionato come un cadavere all’obitorio: fatto a pezzi e ricucito. Il tono è dark, molto molto dark, ma anche ricco di humour. E intorno a questo cuore di tenebra la stampa impazza: Materiale perfetto per Fincher. Gillian Flynn è autrice anche della sceneggiatura. Non è sempre facile per uno scrittore passare dal romanzo al film: stavolta com’è andata?
«L’idea di lavorare con Gillian mi attraeva particolarmente. Di solito, la produzione dà una chance all’autore sapendo che al novanta per cento fallirà. Ma non con Gillian Flynn, perché è una scrittrice che ama anche il cinema e la televisione e capisce la differenza dei vari linguaggi. Non si accontenta di una trama intelligente, vuole coinvolgere il pubblico e, con quello cinematografico, sa che bisogna usare altri mezzi. La materia del libro è molto disturbante, proprio come i grandi casi di cronaca nera alla O.J. Simpson. Al tempo stesso, è una storia sulla facciata: su chi siamo disposti a diventare per sedurre l’oggetto dei nostri desideri. Nel libro, la vicenda è raccontato dal punto di vista di entrambi i protagonisti, secondo un modello “dice lui”, “dice lei”, che non poteva funzionare al cinema. Gillian ha avuto l’abilità di condensare e ridurre, gettando via pagine e pagine dello script, perché un film dura al massimo tre ore, non le cinquanta che la gente impiega a leggere il romanzo da cui è tratto. Ma ha avuto anche l’intelligenza di ricreare la storia con un linguaggio che mostra invece di raccontare».
Quando il libro fu pubblicato due anni fa, si intuiva che sarebbe stato un film adatto a lei. Ma bisognava affrontare il problema dei continui flashback e del diario di Amy che fa da filo conduttore alla storia. Come lo avete risolto?
«La storia è raccontata dal punto di vista della moglie, Amy. I passaggi del diario sono letti in prima persona dall’attrice, Rosamund Pike, mentre le scene scorrono sullo schermo. I flashback sono sempre una faccenda complessa perché è difficile renderli informativi e, allo stesso tempo, sono strategici per i picchi emotivi del racconto. Steven Spielberg ci diede un grande suggerimento: toglierli tutti in un primo tempo, così da arrivare all’essenza, al cuore della storia. Poi reinserire solo quelli che rispondevano ai due criteri appena citati. Un po’ come quando prepari una torta: prima fai la torta e poi aggiungi la glassa. Se la metti in forno già con la glassa, viene uno schifo. I diari di Amy: li abbiamo usati come voce narrante, ma abbiamo aggiunto espedienti visivi come la progressione delle penne con cui Amy li scrive per esprimere la progressione dei suoi stati emotivi. E Gillian è stata così abile da capire che la storia andava ricostruita con una diversa architettura. La somma dei fatti raccontati nel libro è la stessa, ma il modo in cui sono esposti è molto diverso».
Una volta, lei ha detto che ci sono due modi di girare un film: alla Kubrick, lasciando il pubblico a osservare i fatti con un certo distacco, oppure alla Spielberg, coinvolgendolo emotivamente. Questo film da che parte sta?
«Contraddice quella mia distinzione: si rivolge al pubblico utilizzando le due formule. Gli consente una certa distanza di sicurezza dai personaggi, che sono umani, contradditori, quindi non spregevoli, eppure molto inquietanti, ma lo sfida anche a entrare nel gioco, per esempio cercando di indovinare i diversi quiz che Amy propone nella sua caccia al tesoro organizzata per il marito nel quinto anniversario del loro matrimonio. Che è anche il giorno della sua scomparsa».
Un lavoro difficile, per i protagonisti. Come li ha scelti?
«Per Nic, il marito, ho seguito l’istinto. Quando Century Fox mi ha dato il libro da leggere, vedevo solo Ben Affleck in quella parte. Sapevo che avrebbe capito al volo il personaggio. L’orrore del media circus lui l’ha conosciuto: durante la turbolenta storia con Jennifer Lopez e in altri momenti bui. La scelta di Amy è stata più difficile. Volevo un’attrice algida e statuaria, che potesse fare coppia con un attore alto 1,96. Come gli sposi sulla torta nuziale. Ma volevo anche un’attrice che fosse figlia unica: perché i figli unici sono come le orchidee, così consapevoli della propria unicità. Rosamund Pike (Miriam nel film tratto da La versione di Barney, ndr) è stata all’altezza delle aspettative. Con gli altri attori mi sono preso qualche rischio, come con lo showman Tyler Perry scelto per il personaggio di Tanner Bolt, l’avvocato di Nic, o la poco conosciuta Carrie Coon che è Go, la sorella gemella di Nic. Ma hanno fatto tutti un ottimo lavoro».
Per la musica ha chiamato Trent Reznor, leader dei Nine Inch Nails, e Atticus Ross, già suoi collaboratori in altri film. Sembra abbiano fatto meraviglie. Il paesaggio sonoro si fonde con i toni seppia e i tormenti di Rosamund Pike.
«La mia idea è che il suono è metà del film. La gente non può resistere alla musica. Colpisce una parte del nostro cervello dove non esiste un filtro editoriale che la possa scomporre, analizzare. Quindi i musicisti devono essere storyteller, non commentatori. Devono raccontare il film a modo loro, creare mondi sonori. Questa è una storia che si svolge nel mezzo dell’America: classe media, provincia del Missouri, al centro dell’Unione».
Momenti difficili in una storia così dark?
«Due scene di sangue, un bel po’ di sangue, con Amy. Le abbiamo rigirate parecchie volte e facendo sempre molta attenzione che nessuno si ferisse sul serio. Una scena però l’abbiamo tagliata».
Lei è stato definito prima il portavoce della generazione X, con Fight Club, poi quello della generazione Y con The Social Network. A quale pubblico si rivolge L’amore bugiardo?
«È una storia intergenerazionale. Racconta i lati oscuri del matrimonio di una coppia di ultratrentenni, ma si rivolge a tutti: perché indaga sugli aspetti psicologici dei protagonisti, ma anche sul comportamento invasivo dei media. Quando esplode un caso di cronaca i tg live stanno addosso ai protagonisti 24 ore al giorno».
In televisione, appunto, lei è reduce dai successi di House of Cards: produttore esecutivo della serie e anche regista dei primi due episodi. Altri progetti su quel fronte?
«House of Cards è stata un’ottima esperienza. Non mi sento di dire che abbiamo rivoluzionato la televisione con quella serie, ma abbiamo creato un solido segmento ambientato alla Casa Bianca, senza cadere in troppi cliché. Il progetto è stata “nutrito”, non solo finanziato, da persone consapevoli che non tutti i problemi si risolvono con un assegno. A volte devi rischiare, rischiare molto, per realizzare un prodotto innovativo, e non è facile trovare qualcuno che non si limita a finanziarti, ma ti incoraggia anche a proseguire in quella direzione. Una direzione tutta da esplorare: Game of Thrones, Breaking Bad o True Detective hanno proposto grandi innovazioni nel linguaggio visivo. Non credo che potrei passare dieci anni dietro una serie come certi registi, non lavorando ad altro, ma sono decisamente interessato a fare più televisione. La settimana prossima parte la preproduzione di una nuova serie per Hbo. È ambientata nel 1993, in un mondo che conosco bene, quello che girava intorno ai video musicali. Il tono è da commedia, cercheremo di evitare l’effetto nostalgia, puntando invece sullo humour. Ma non è una sit-com».
Gloria Mattioni, il Venerdì di Repubblica 5/9/2014