Daria Galateria, il Venerdì di Repubblica 5/9/2014, 5 settembre 2014
QUEL DELITTO PERFETTO CHE INGELOSÌ HITCHCOCK
Era il 1954; Hitchcock vide I diabolici, il film del maestro francese Georges Clouzot, e si ingelosì. I diabolici era tratto da un romanzo della coppia Boileau-Narcejac (che esce ora da Adelphi nella sapiente traduzione di Giuseppe Girimonti Greco, pp. 176, euro 16); trattava temi cari a Hitchcock: personaggi che vivevano due volte, donne assassinate ma non troppo, confini sfumati tra esistenza e morte, incerte frontiere tra bene e male, fra vittime e assassini; e il «famoso transfert della colpa» che è uno dei motivi conduttori di Hitchcock: come sosteneva Claude Chabrol, padre fondatore della Nouvelle Vague. Da Hollywood Hitchcock si rivolse dunque a Boileau-Narcejac perché scrivessero un romanzo apposta per lui: i due si applicarono, e nacque Vertigo/La donna che visse due volte.
Hitchcock non amava confessarlo. Intervistato da Truffaut, tende a negarlo o a cambiare argomento; Truffaut, regista ma anche scrittore, e presumibilmente ben informato, glielo ribadisce a tre riprese: «D’entre les morts (il romanzo che diventò Vertigo/La donna che visse due volte) è stato scritto apposta per lei, perché ne facesse un film»; «Lei crede?», ribatte Hitchcock. Dopo il successo dei Diabolici, è un fatto che la Paramount si era affrettata ad acquistare i diritti del romanzo successivo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac.
La mitica coppia del giallo francese era nata alla soglia degli anni Cinquanta. Boileau aveva all’epoca una consolidata carriera di scrittore di gialli della «camera chiusa» alla Poe, la tradizione razionalista del genere. Negli anni Trenta vinceva premi con storie degne delle squisite analisi iperlogiche di Sherlock Holmes: nella Pietra che trema un Leonardo da Vinci scompare dalla collezione di un marchese; il guardiano è stato ucciso; l’intruso assassino è colto in flagrante, ma a mani vuote. Il quadro però riappare, offerto contro un sontuoso riscatto: la soluzione è che il quadro era stato subito bruciato nel caminetto del castello, e il dipinto resuscitato era solo una copia.
Poi ci fu la guerra, e l’angoscia borghese di trovare un movente razionale alla morte perse piede. Boileau era stato mobilitato, e fatto prigioniero; alla Liberazione, cambiò scrittura e tematiche; l’enigma si spostò, dai fatti, all’inconscio, e il poliziesco virò verso la suspense; i quadri d’ambiente presero spesso la strada della piccola e media borghesia alla Simenon. Soprattutto, per Boileau ci fu nel 1948 l’incontro con Narcejac, con cui firmerà 50 romanzi gialli e tantissimi racconti.
Thomas Narcejac era professore di scuola, di filosofia. Nel dopoguerra, aveva cominciato a scrivere imitazioni di autori gialli – li intitolava Falsi. Narcejac era a sua volta uno pseudonimo, preso dal luogo dove da ragazzino andava a pescare – quando ancora si chiamava Pierre Ayraud. Vinse un premio, e a una cena il direttore del premio, Albert Pigasse – editore di Agatha Christie in Francia – provò a presentargli Pierre Boileau. Fu l’inizio di una collaborazione che durò a vita.
Era, il loro, un giallo senza detective e gangster; senza violenza esplicita. Fin dalle prime pagine, i due creano un clima d’angoscia indefinito che il finale non dissipa. Furono anche teorici del genere: la suspense, scrissero, era l’attesa di qualcosa di cui non si conosce la natura, che è forse inconoscibile e comunque «si manifesterà in modo enigmatico e inassimilabile dalla ragione». Il romanzesco, nel giallo, si colloca in questo chiaroscuro; nello sregolamento del quotidiano che crea straordinari sconfinamenti, e che può trasformare l’assassino in vittima.
I diabolici è il loro primo romanzo in comune. Il titolo francese del romanzo, Lei che non era morta, annuncia il clima nero e fantastico in cui la storia sembra precipitare a metà. All’inizio, tutto è un perfetto meccanismo di giallo logico; le atmosfere lugubri di vicende coniugali piccolo-borghesi non preannunciano nessuna apertura soprannaturale. Una coppia di amanti, appunto diabolici, mette a punto un piano inaffondabile (nel progetto criminale l’acqua ha un grande spazio) per liberarsi di una moglie inutile, e recuperare il premio di un’utilissima polizza sulla vita. Solo a piccole dosi il romanzo rilascia il veleno del progetto e qualche spiraglio sulle motivazioni profonde dei protagonisti; la grande sapienza dello stile ci distrae stillando lo squallore della provincia francese, che dalla modestia degli interni e l’avvilimento della glauca luce invernale si trasfigura quietamente nel marcio delle anime. Questa scrittura – pare – è di Narcejac; Boileau essendo, tra i due, il grande tessitore delle trame.
Lo scrissero nell’autobiografia a quattro mani Tandem: Boileau era lo sceneggiatore, Narcejac il regista. Quando gli chiedevano (e succedeva continuamente): ma come vi dividete il lavoro? Narcejac rispondeva: «Scrivo solo io perché ci sia unità di scrittura». Ma c’era tra loro una conversazione permanente, e interventi incrociati: «Se uno si blocca, l’altro gli dà il cambio». «Siamo critici l’un verso l’altro, manteniamo una distanza», dichiaravano. Così, per tutta la prima metà del romanzo, la felicità della pianificazione del delitto perfetto e la suspense si bilanciano con la ricostruzione d’ambiente di una provincia attraversata da piccoli piazzisti, postini, pensionati; e riscaldata appena dal cognac, nei bistrot. Ovunque, l’acqua uniforma la notte, anche a Parigi: «Gli aculei luminosi della pioggia. La mandria scintillante delle auto. La notte riempie il boulevard come un liquido percorso da mulinelli. Sii sincero! Hai sognato centinaia di volte di essere un annegato perduto in fondo a quelle fosse abissali che sono le strade. Oppure eri un pesce e ti divertivi a sbattere il muso contro le vetrine, a contemplare quelle nasse piazzate in mezzo alla corrente che sono le chiese, a quei tappeti di alghe che sono i giardinetti pubblici».
Realizzato il delitto, la storia deraglia. La morta annegata – perfettamente morta – scompare; il cadavere non è più dove dovrebbe essere; la donna riappare apparentemente viva. Una sosia, un fantasma? Ora tornano utili al lettore tutti gli indizi e gli squarci psicologici che consentono ai personaggi di reagire a una situazione soprannaturale: la protagonista forse è lesbica; fino a che punto l’uomo è stato disturbato nell’adolescenza dalla figura paterna? Intanto vivi e morti «esistono entrambi, ma si muovono in due elementi distinti, non possono ricongiungersi. Vivono su due piani di realtà governati da leggi diverse. Non è escluso però che ci siano delle interferenze». Si avanza sconcertati e curiosi nella lettura finché una rapidissima pagina finale offre la spiegazione razionale, feroce e terribile della storia. Ancora aperta a una ripresa della vicenda, identica e doppia. Mirabile finale; si capisce che Hitchcock sia rimasto irretito, e abbia desiderato una trama altrettanto profonda, tutta per sé.
Clouzot trasferì la vicenda in un collegio; e così tra Simone Signoret e Paul Meurisse spunta, studente, Johnny Hallyday. Reso più atroce e assordante dall’assenza di colonna sonora, I diabolici ebbero sullo schermo un enorme successo, e da allora il regista fu chiamato l’«Hitchcock francese».
Daria Galateria, il Venerdì di Repubblica 5/9/2014