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 2014  settembre 05 Venerdì calendario

HUMAN2.0

Immaginare il futuro significa capire il presente. Anche se quel futuro non necessariamente diventerà realtà. Ma in Giappone hanno deciso di costruire un avvenire ipotetico. Di più: di farlo toccare con mano ai comuni mortali. Al National Museum of Emerging Science and Innovation, chiamato Miraikan, è stata appena inaugurata una mostra permanente intitolata Android: What Is Human?, ovvero Androdi. Cos’è umano?.
Il museo, che sorge sull’isola artificiale di Odaiba nella baia di Tokyo, è lo stesso visitato ad aprile dal presidente americano Barak Obama ed è noto perché ospita Asimo, il robot della Honda considerato fra i più avanzati al mondo nella sua ultima versione del 2011. Si esibisce quotidianamente al terzo piano intrattenendo il pubblico con qualche corsa, giochi di equilibrismo e alcune brevi interazioni salutando e stringendo mani. Ora lo affiancano i tre nuovi androidi che puntano a una forma diversa di contatto. Li ha concepiti Hiroshi Ishiguro, dell’università di Osaka, che ha spiegato: «Costruire macchine simili a noi non significa assemblare un aspirapolvere intelligente ma capire cos’è la paura, cos’è un’emozione, cos’è pensare».
La prima, Kodomoroid, è una annunciatrice televisiva. Legge le notizie che arrivano dal mondo prendendole dal web, elencando tutte le stragi, i disastri e gli incidenti dove delle persone hanno perso la vita. Muove la testa un po’ a scatti, ma mentre snocciolala le cifre che raccontano la nostra capacità di autodistruggerci, mostra un’evidente partecipazione. Che impressiona.
Anche Otonaroid ha l’aspetto di una donna. Ma a differenza della sua collega, Ishiguro l’ha pensata come uno strumento di comunicazione a distanza: sfruttando il web e usando lei come interfaccia (che riproduce le nostre espressioni del viso e i nostri diversi toni di voce) si può parlare con qualcuno dall’altra parte del mondo. Una sorta di Skype futuribile, con un corpo, una testa e soprattutto uno sguardo molto, molto vicino al nostro. C’è ancora un lieve ritardo, avvertibile fra la riproduzione di quel che diciamo e i movimenti facciali. Ma l’effetto è spiazzante.
«Sedendosi davanti ad Otonaroid la prima reazione del pubblico è di timore» racconta Maholo Uchida, curatrice del Miraikan. «Ci somiglia a tal punto da mettere a disagio. Poi a un tratto la diffidenza scompare, l’androide ti guarda negli occhi e la persona entra in contatto cambiando atteggiamento. Usando lo sguardo – una delle forme più umane e profonde di comunicazione – questi robot ci conquisteranno». Come è successo a Damon Albarn, il cantante dei Blur e dei Gorillaz, che ha dialogato con Otonaroid a fine luglio.
Il terzo androide si chiama Telenoid e ha un’altra forma e altri propositi. Stando alle parole di Ishiguro è un robot «curativo» con un volto appena accennato. Le dimensioni sono quelle di una bambola, un piccolo manichino senza mani né piedi che va tenuto fra le braccia. «Teranoid è minimale perché nella mente di chi lo abbraccia deve poter essere chiunque» continua Uchida. «È già usato in alcuni centri per gli anziani. È un’entità che può avere mille volti e con cui stabilire un rapporto emotivo».
Dalla ricerca alla pratica, ma sempre partendo da radici che affondano nell’immaginario. I riferimenti sono tanti, iniziando da Astro Boy, il bambino robot del 1952 di Osamu Tezuka. Quello più vicino alla filosofia di Ishiguro è però Motoko Kusanaghi, la protagonista di Ghost in the Shell, il manga del 1989. Androide poliziotto, combatte guerre sia sul fronte digitale che su quello reale, molto più umana degli umani con cui ha a che fare. Il suo autore è Masamune Shirow, che ispirandosi alle opere dello scrittore Arthur Koestler e del filosofo del linguaggio Gilbert Ryle, abbandona il cogito ergo sum cartesiano per l’idea che sia la condizione fisica del nostro cervello l’origine della mente. E dunque dell’anima. Ricostruirlo in forma sintetica vuol dire allora dare vita a uno spirito digitale. Che è quel che succede nei due film tratti da Ghost in the Shell. Non a caso il quarto e ultimo capitolo di Ghost in the Shell: Arise, serie per il cinema a episodi, verrà festeggiato proprio al Miraikan il prossimo novembre.
Nel frattempo la Softbank sta per lanciare sul mercato Pepper, un robot personale da circa due mila euro capace di comprendere le nostre emozioni. Dovrebbe arrivare sul mercato fra gennaio e febbraio, equipaggiato con delle telecamere in hd in grado di riconoscere le espressioni del volto. Non solo: sarà anche capace di apprendere dai nostri comportamenti. «L’obbiettivo è quello di creare la prima generazione di robot affettivi che possano far sorridere le persone» ha detto durante la conferenza stampa lo scorso giugno Masayoshi Son, il miliardario a capo di Softbank. Pepper sembra l’erede di Aibo, il cane della Sony del 1998 (uscito di produzione nel 2006). E in parte di Furby, il pupazzo interattivo della Hasbro lanciato sempre nel ’98 e ancora in circolazione. Ma le strade degli androidi di Ishiguro e dei giocattoli hi-tech, fatalmente finiranno per incrociarsi. O almeno è questo che sperano in Giappone dove, fra l’altro, per le olimpiadi del 2020 hanno perfino organizzato dei campionati dedicati ai robot.
«Non si tratta solo del fatto di esser cresciuti con i cartoni» sottolinea Uchida. «Tutti i ricercatori che oggi lavorano nella robotica hanno visto quei personaggi, da Astro Boy a Gundam, da Ufo Robot e Evangelion. Perché in fondo è un motore che appartiene anche all’Occidente. La Stazione Spaziale Internazionale, l’Iss, è infatti figlia dell’immaginario anche se gli astronauti non vanno in giro con la spada laser. Ma in Giappone credo c’entri anche l’idea di “natura” umana dello shintoismo, dove la divisione fra naturale e artificiale non ha un confine preciso e l’aspirazione a evolversi a volte può prendere la forma di una evoluzione naturale nell’artificiale».
Senza fratture, contrapposizioni, dualismi. Soprattutto senza incubi alla Io Robot, il film del 2004 tratto dall’opera (del 1950) di Isaac Asimov. Incubi che in Occidente, ormai da oltre mezzo secolo, continuano invece a tormentarci.
Jaime D’Alessandro, il Venerdì di Repubblica 5/9/2014