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 2014  settembre 05 Venerdì calendario

PERCHÉ OGNUNO NASCE CON IN TESTA LE REGOLE DELLA GRAMMATICA

MANTOVA
Comincia tutto con una frase: «Il gulco gianigeva la brala». Poi con un’altra: «Il lappento non tonce mai». Il correttore di Word impazzisce e, inflessibile, sottolinea in rosso. Ma dietro il nonsense si cela una delle più avanzate frontiere della neurolinguistica o della linguistica in senso stretto. E il Festivaletteratura se ne fa veicolo, ospitando tre ricercatori impegnati da anni su queste ricerche e qui nella veste di non banali divulgatori.
Sono Andrea Moro, il caposcuola, autore di Breve storia del verbo essere e di Parlo dunque sono (entrambi editi da Adelphi nel 2010 e nel 2012) e i più giovani Valentina Bambini e Cristiano Chesi. Sono linguisti di formazione, sfoggiano curricula con lunghi soggiorni ad Harvard e alla Normale di Pisa. Lavorano a Pavia, dove Moro dirige il Nets, Centro di Neurocognizione e sintassi teorica (oltre a essere rettore vicario della Scuola Superiore Universitaria). Mercoledì sera Moro, ieri e oggi Bambini, domani Chesi: si parla di sintassi e della sua origine biologica, di Noam Chomsky e di come la combinazione delle parole sembrerebbe dipendere dalla struttura neurobiologica del cervello, di metafore, di parole speciali (esclamazioni, insulti, onomatopee...) e della grammatica delle filastrocche. Un menu denso, sceneggiato intorno a una lavagna d’ardesia, con gessetti e cancellino di fronte all’ingresso della chiesa di sant’Andrea, sulle cui gradinate si assiepa una gran folla. Scienza e linguaggio si specchiano, esperimenti e gioco, l’esposizione è accessibile e il pubblico di Mantova apprezza. L’unica preoccupazione sono i nuvoloni che si addensano neri nel cielo.
«Il gulco gianigeva la brala» è una frase che contiene due articoli, due nomi comuni (forse un soggetto e un complemento oggetto), un verbo (un predicato verbale, apparentemente un imperfetto). Non vuol dire nulla. Eppure è sintatticamente corretta, le parole sono ordinate precisamente. L’esperimento di Moro si chiama brain imaging, neuroimmagine, è praticato con la risonanza magnetica: il linguista smette i panni del filologo e indossa un camice bianco. L’indagine consiste nel sottoporre la frase a un soggetto, del quale si misura l’attività cerebrale, in particolare l’afflusso di sangue al cervello: normale alla lettura che «il gulco gianigeva, ecc, ecc.». Ma se allo stesso soggetto si propone una frase con gli stessi elementi, però scombinati, del tipo «il gulco gianigevano la brala» o, ancora, «gulco il gianigeva brala la» si attivano due punti del cervello, l’area di Broca (dal nome di Paul Broca, neurologo francese della seconda metà dell’Ottocento), e il “nucleo caudato”. «È il segno», spiega Moro, «che se si viola la sintassi si attivano nel cervello reti diverse da quelle in funzione di fronte a una frase che, pur senza senso, la sintassi la rispetta. Noi esseri umani, e solo noi fra gli esseri viventi, siamo progettati in maniera speciale, possediamo un’architettura neurocerebrale, una rete di circuiti che condizionano il codice del linguaggio ».
Moro si muove sulle orme di Chomsky, che dalla fine degli anni Cinquanta ha rivoluzionato la linguistica (poi è diventato celebre anche come ideologo anticapitalista, inflessibile critico della politica americana), scombussolando i suoi assetti e dividendo schiere di studiosi in estimatori e detrattori. Già Chomsky ragionava sulle frasi senza senso, ma sintatticamente ineccepibili. Le infinite possibilità di combinare le parole derivano, dice Chomsky, da un numero finito di regole, innate. Da qui l’ipotesi che, appunto, la sintassi sia biologicamente determinata, non prodotto delle convenzioni o della storia. Moro parte da questi assunti. «Quando ero ancora studente, mandai a Chomsky un mio lavoro. E lui volle incontrarmi. Ma non è vero, come molti sostengono, che le nostre teorie bandiscano esperienze e cultura, riducendo tutto alla biologia. Noi cerchiamo di capire i limiti entro i quali esperienze e cultura possono incidere sulla struttura o possono cambiarla. È un po’ come stabilire cosa il nostro apparato digerente può sopportare: cosa mangiare è un’altra faccenda».
Un fronte sul quale verificare queste ipotesi è quello dei bambini. Spiega Moro: «Il nostro cervello contiene tutte le regole possibili di tutte le lingue, ma solo quelle che l’ambiente esterno sollecita diventano proprie. I bambini possono imparare le lingue con maggiore facilità fintanto che non posseggono operazioni logiche e culturali raffinate. Invece gli adulti lo fanno con più difficoltà. Questo vuol dire che siamo biologicamente progettati per apprenderle».
Le frontiere della neurolinguistica sono mobili e passano dai laboratori alle indagini su alcune forme di disabilità. Servono d’ausilio per alcune diagnosi. Anche se, spiega Valentina Bambini, «un tempo l’unico modo per arrivare a informazioni sui sostrati cerebrali del linguaggio era lo studio di una patologia, mentre oggi è possibile sviluppare ricerche sui soggetti sani, il che apre grandi orizzonti alla scienza». Bambini si è concentrata sullo studio della metafora, che non è prerogativa del linguaggio poetico: «Si calcola che vengano prodotte 5 metafore, 5 usi non letterali di una parola ogni minuto di conversazione. In media si stima che ogni giorno pronunciamo 16 mila parole, 2.600 sono metafore, circa una ogni sei». Ma la metafora serve anche per individuare alcune patologie, insiste Bambini.
La schizofrenia, per esempio: è dimostrato, sulla base di esperimenti condotti sempre con la risonanza magnetica, che chi ne è affetto fatica a riconoscerle. Le usano, ma non le riconoscono. Situazione rovesciata in alcuni casi di afasia. Questi pazienti, racconta Bambini, hanno perso gran parte del lessico, ma conservano l’uso di parole speciali, come le parolacce, le imprecazioni, le bestemmie. E questo perché attingono a una scorciatoia emotiva (di questo Bambini parla oggi, alle 18,30).
Il ciclo mantovano si chiude con Chesi, con la “grammatica della fantasia” sulla quale seriamente giocava Gianni Rodari. E un po’ gioco, un po’ laboratorio è la sua lavagna di domani: com’è fatta una filastrocca? Quanto contiene di grammaticale — cioè di regole, di possibilità più che di prescrizioni — e quanto di invenzione? Si sezionano filastrocche, anticipa Chesi, «ma soprattutto si cerca di capire come funzionano una lingua e il sistema digestivo linguistico». La filastrocca è fatta di ritmo e di rime, che aiutano la memorizzazione, rendono riconoscibile e apprezzabile quel breve testo (Rodari: «C’era un vecchio di palude / Di natura futile e rude / Seduto su un rocchio / Cantava stornelli a un ranocchio…»).
Francesco Erbani, la Repubblica 5/9/2014