Simonetta Fiori, la Repubblica 5/9/2014, 5 settembre 2014
“TUTTO IL NOSTRO CAPITALE UMANO È IN UN SELFIE”
[Intervista a Paolo Virzì] –
«La felicità oggi? Sperare di avere una buona reputazione su twitter». Pochi registi come Paolo Virzì hanno saputo raccontare l’immaginario italiano negli ultimi decenni, dal paese caotico e ancora vitale di La prima cosa bella al paesaggio cupo e perduto del Capitale umano. Nel suo piccolo ufficio della Motorino Amaranto, tra i palazzoni dell’Ostiense, ha trascorso parte dell’estate al lavoro. Il suo computer trabocca di file con progetti mai realizzati. «Devo decidere quale sviluppare. Una volta imboccato un sentiero, per due anni non penso ad altro».
Se le chiedo di parlarmi dei desideri collettivi lei pensa subito ai social network.
«Sì, il desiderio più diffuso è disporre di un palcoscenico. Perché solo Buffon e la D’amico possono essere fotografati in costume da bagno su uno scafo? È giusto che anche il commercialista di Ancona o il concessionario d’auto di Ladispoli abbiano il loro momento di celebrità. È la regola dell’esclusivo di massa, amplificata dal web: tutti vogliono diventare vip, anche sparando autoscatti su facebook o su twitter».
Molti vi ricorrono per il desiderio di sentirsi inclusi. E questo dell’esclusione/inclusione è un tema che ritorna in quasi tutti i suoi film.
«È un tema che ha a che fare con la felicità. Che cos’era la scontentezza di quel Giancarlo Iacovoni interpretato da Castellitto in Caterina va in città , un film di dieci anni fa? Ha una moglie carina e devota, una figlia brava a scuola, insomma mille motivi per essere felice. Che cosa lo rende insoddisfatto? Il fatto di non essere chiamato al Maurizio Costanzo Show.
O di non appartenere alla cerchia del privilegio incarnato dall’intellettuale engagé e dal vice ministro postfascista. Era un pazzo, non certo un eroe positivo. Un uomo assillato dalle “conventicole”. Incarnava quell’ossessione che poi ha portato molti ad aderire con entusiasmo cieco all’odio contro la casta. Qualche politico furbacchione l’ha saputa ben cavalcare ».
Non c’è dubbio. Però in quel film c’era un elemento di realtà. La distinzione tra l’Italia dell’establishment, indipendentemente dal colore politico, e l’Italia di chi deve far leva solo sulle proprie forze. Alla sinistra non piacque essere raffigurata come privilegiata. E il film venne anche stroncato.
«Non era la prima volta. Alla metà degli anni Novanta ero stato molto criticato anche per Ferie d’agosto. Raccontavo quasi in presa diretta la sinistra colta che s’illudeva di possedere gli strumenti per capire tutto e invece fu tramortita dalla discesa in campo di Berlusconi. Si trattava di un autoritratto, in quella casa di Ventotene c’ero io con i miei amici. Ma allora fui accusato di qualunquismo. Dopo alcuni anni il film è stato definito addirittura profetico. In fondo è bello essere rivalutati prima di morire».
Cosa sarebbero diventati oggi quei personaggi?
«Ci penso spesso. Una volta ho immaginato che Silvio Orlando — il giornalista di sinistra — fosse diventato il consulente del ministro Bassolino che voleva portare nell’isola sviluppo e imprenditorialità. Solo che nel pool di investitori arrivava l’antico rivale, il rozzo berlusconiano suo vicino di casa a Ventotene, quello che dieci anni prima l’aveva apostrofato: “Voi intellettuali non ci state a capire un cazzo, ma da mo’...”. A suo modo anche quel personaggio, commerciante di caccia e pesca del Tuscolano, s’era sentito per tanti anni un escluso. Al tavolo del ministro si presenta con un progettino di edificazione di villette e resort proprio nella spiaggia prefeluto rita da Molino-Orlando. Ora però dovrei aggiornare il copione».
In che modo?
«Sandro Molino era un giornalista dell’Unità: oggi starebbe a casa con qualche ammortizzatore sociale, dunque sempre meno privilegiato. E l’armaiolo gaudente ora sarebbe un entusiasta seguace del blog di Beppe Grillo. Una sorta di “sputificio” dove di recente ho avuto l’onore o la maledizione di essere incoronato regista del giorno: ho riso per i primi cinque o sei commenti, poi mi è calato giù un magone che non ho vouna leggere più niente».
Il tema dell’esclusione l’ha vissuto anche sul piano personale?
«Vengo da una famiglia modesta, mio padre era un carabiniere siciliano. Sono cresciuto a Livorno nel quartiere popolare Sorgenti, a ridosso di quelle ciminiere che ora non fumano più. I miei amici di cortile erano tutti figli di operai: confrontavamo gli stipendi dei genitori che erano gli stessi. Quando sono uscito dal quartiere per andare al liceo classico mi sono trovato alle prese con la questione sociale e la lotta di classe. I miei compagni di scuola erano tutti figli dell’alta borghesia».
Come in Ovosodo. Ma lei pativa questa differenza?
«Certo. Anche nei miei film più scanzonati ribolle la rabbia per essere nato dalla parte sbagliata. Forse sono stato un giovane un po’ livoroso. Non riuscivo a fidanzarmi con le ragazze ricche perché le odiavo».
E l’impatto con la Roma del privilegio?
«I primi anni furono esaltanti. Ho incontrato molti altri matti come me che scappavano dalla provincia. Al risentimento verso “i figli di...” subentrò per loro una sorta di tenerezza: si trattava di un’altra forma di infelicità, il sentimento di inadeguatezza verso i padri. Mi successe però una cosa curiosa: presi a indossare più volentieri la maschera polemica del livornese. Forse era anche un modo per proteggermi dalle varie Lavinie e Lucrezie etc: sono arrivato dalla città proletaria per prendervi per il culo. Divenni orgoglioso di cosa di cui prima mi vergognavo ».
Quando ha smesso di fare il livornese?
«Forse mai. Ora sono anche io un privilegiato, sono diventato un borghese con casa di proprietà, ma sento che una parte di me fa resistenza. Un po’ per ragioni sociali: il nostro è un paese in cui non è possibile costruire un patrimonio in una sola generazione. Un po’ non mi interessa: ho sempre abitato in posti come Trastevere e Campo de’ Fiori dove un tempo stavano tanti pezzenti come me. E oggi mi va bene abitare all’Ostiense».
Ha raccontato l’infelicità dell’esclusione, e quindi il desiderio di sentirsi inclusi, ma non vuole sentirsi tale fino in fondo.
«Mi piace la terrazza di Jep Gambardella, ma sempre tenendomene un po’ fuori. Forse perché voglio continuare a sfotticchiare ».
Il suo ultimo film ritrae un’Italia incapace di grandi slanci e dunque priva di desideri, se non quello di arricchirsi.
«Ho raccontato un parte del paese, non tutto il paese. È vero, il ritratto del mondo adulto è molto amaro, le madri forse sono un po’ meglio, ma nei miei film quello paterno è sempre un personaggio inadeguato. Sono persuaso che il lato femminile custodisca segreti vitali di affettività che il maschio non ha. E poi mi resta una disperata speranza nelle generazioni più giovani. Quella continuo a coltivarla sempre».
Simonetta Fiori, la Repubblica 5/9/2014