Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 5/9/2014, 5 settembre 2014
LA SOLITUDINE DI FABER
Apiù di 15 anni dalla sua scomparsa, Fabrizio De André continua a essere il cantautore italiano più amato. La celebrazione talora acritica che ha caratterizzato molti tributi, volti a levigare ogni suo spigolo fino a tramutarlo in una sorta di santino, probabilmente lo infastidirebbe. De André non ha mai voluto piacere a tutti. Andandosene anzitempo si è consegnato al mito e ha lasciato un’assenza non colmabile.
Perché manca così tanto? Perché aveva un talento non comune, certo. Perché aveva una voce unica, certo. C’è però almeno un altro motivo. I cantautori – quelli più ispirati, quelli meno modaioli – sono stati figure artistiche assai atipiche. Non riuscivano ad appartenere, non politicamente almeno, ritrovandosi quasi sempre cani sciolti e anarcoidi. È il caso di De André come di Gaber. Al tempo stesso, entrambi – pur non riuscendo ad appartenere – generavano appartenenza. Li si andava a vedere consapevoli che non sarebbe mai stato soltanto un concerto. Sopra quel palco, più che un artista, lo spettatore avrebbe trovato un fratello maggiore, capace di dirti – e dirtelo bene – quello che gli altri non dicevano.
Solo De André sapeva metterti in guardia così bene dalla maggioranza, quella che coltiva tranquilla “l’orribile varietà delle proprie superbie (..) come una malattia”. E solo De André rivelava che spesso i diamanti si trovano dove nessuno mai li cercherebbe, in quel “letame” che è poi l’humus – più subìto che scelto – dei “servi disobbedienti alla legge del branco”. Ovvero le “anime salve”, coloro che sapranno consegnare “alla morte una goccia di splendore”.
Ecco perché De André manca così tanto: perché era appartenenza e perché con lui la solitudine era più tollerabile, o addirittura invidiabile.
Ricordarlo, senza retorica e con rispettosa gratitudine, è anche una maniera per lenire quell’assenza.
Giulio Casale e io lo facciamo da quasi un anno con Le cattive strade, spettacolo che domenica (ore 21.30) chiuderà la festa del Fatto alla Versiliana. Sarà la 43esima replica, delle 90 da qui a giugno, e sarà ovviamente particolare.
Il tema del “diverso”, dell’emarginato è centrale in De André. L’artista genovese intuisce, apprendendolo anzitutto da Brassens, che la via maestra è quella “cattiva”, battuta da coloro che hanno lambito la morte (i condannati, i drogati) e inseguito la pietà per restare in qualche modo salvi.
Poiché non esistono poteri buoni, la salvezza coincide spesso con una inseguita emarginazione che tenga al riparo l’anima e permetta che qualche raggio di sole arrivi a scaldarti, oltrepassando quelle nuvole – citazione da Aristofane – che sono poi un’altra rappresentazione del potere opprimente.
I salvi di De André sono Geordie, sono Piero, sono Princesa.
In un paese fatalmente tendente all’ipocrisia, questa insistita vicinanza agli ultimi – e questo smisurato rigore morale – sono un approccio rivoluzionario.
E la rivoluzione è un altro elemento della longevità del messaggio deandreiano, ormai un classico e dunque reinterpretabile come chiedono – e anzi esigono – i classici.
Era rivoluzionario parlare di Sessantotto riprendendo non il Maggio francese (che sarebbe arrivato dopo in De André) ma i Vangeli Apocrifi , applicando a quel presente ribelle l’ossimoro della laicità cristiana.
Gli dicevano: “Che c’entra la Buona Novella? Perché parli di Gesù mentre noi siamo sopra le barricate?”. E lui: “Perché nessuno è stato più anarchico e rivoluzionario di Gesù”. Ancor più il Gesù “umanizzato” dei Vangeli non autorizzati.
In De André era rivoluzionario anche l’approccio con il mercato: negli ultimi anni incise un disco ogni sei anni. Un tempo lentissimo e kubrickiano, per nulla commerciale, che non poteva non assecondare: De André incideva dischi solo quando aveva qualcosa da dire.
Terrorizzato dai concerti, a cui si avvicinò soltanto nel 1975, De André è stato rivoluzionario anche in un aspetto che molti volutamente dimenticano: quello musicale. Spesso la canzone d’autore italiana ha buoni testi ma musiche non all’altezza.
De André era il primo a sapere che quella “balbuzie musicale” doveva essere superata, perché le sue parole sarebbero comunque evaporate – in una nuvola rossa, va da sé – senza vestiti sonori all’altezza. Per questo, sin dall’inizio e più ancora dalla seconda metà dei Settanta dopo la tournée con la Pfm, accanto a De André c’è sempre qualcuno. I fratelli Reverberi, Mannerini, Giuseppe Bentivoglio, New Trolls, Piovani, De Gregori, Bubola, Pfm, Pagani, Fossati. In quegli Anni Ottanta che videro impantanarsi molti colleghi, lui – depositario della lingua italiana in musica – rinunciò all’italiano per cantare in dialetto genovese.
Se il mondo era cambiato, e se già si intuivano i prodromi di quella “pace terrificante” che avrebbe portato alla “domenica delle salme”, occorreva cambiare lo strumento della narrazione e inseguire un nuovo (o vecchio) esperanto.
De Gregori ha sostenuto che De André è stato “un grande organizzatore del lavoro altrui”.
Ed è vero che, da solo, ha scritto poche canzoni. Ma non è un limite. Al contrario: conscio tanto della sua forza quanto delle sue lacune, si è sempre fatto accompagnare da compagni di viaggio – che spesso hanno toccato il loro apice con lui accanto – proprio per raggiungere quell’idea altissima di arte che aveva.
Chiedersi se sia stato o no un poeta è capzioso: musica e cantautorato sono sport diversi. Di sicuro è stato artista rigoroso, intellettuale inquieto e uomo libero. Anima salva, ieri come oggi.
Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 5/9/2014