Claudio Lindner, L’Espresso 5/9/2014, 5 settembre 2014
DOCCIA SCOZZESE
Irvine Welsh tira in ballo il sesso e dice che il referendum è «un’esperienza carnale, un po’ come perdere la verginità». Per l’indipendenza della Scozia «ci si esprimerà come fosse la "prima volta", nervosi e impauriti, ma alla fine sarà bellissimo...». Lo scrittore scozzese, autore di "Trainspotting", non vota perché ormai residente tra Chicago e Miami, ma in agosto, prendendo come scusa il Festival di Edimburgo, si è improvvisato sponsor della campagna per il Sì. Sia pur ardita, la metafora ha indubbiamente senso. L’appuntamento del 18 settembre, una consultazione che rischia di far saltare non solo il Regno Unito ma l’intera Europa, tocca il cuore e la pancia di molti scozzesi più ancora che la testa e il portafoglio. Vedono la vittoria di "Yes Scotland", al momento ancora improbabile, come un risarcimento ai 307 anni di sottomissione.
La campagna per il No e il cartellone di tutti i principali partiti chiamato "Better Together" (Meglio assieme) hanno un grande sostegno dell’establishment londinese e dei media tradizionali e si sono accontentati del basso profilo. Fino al secondo dibattito televisivo tra l’indipendentista Alex Salmond e il principale avversario Alistair Darling, quando il trionfo del primo ha cambiato le carte in tavola dando la sveglia a conservatori, laburisti e liberaldemocratici, anche perché nei sondaggi il fronte "Yes" si è avvicinato (47 contro 53 per cento) quasi dimezzando lo svantaggio. A due settimane dal voto la tensione è improvvisamente salita, con intemperanze e episodi di intolleranza poco british. Jim Murphy, deputato unionista, si è preso un uovo in faccia da un secessionista e ha deciso di interrompere la campagna. Durante dei tafferugli a Glasgow, una donna incinta è stata aggredita da un sostenitore del No. A Inverness, cittadina delle Highlands letteralmente tappezzata di piccoli manifesti blu con la scritta bianca "Yes" e dove il vero mostro non è più Loch Ness bensì Westminster (il parlamento di Londra), lunedì 1 settembre due deputati del No hanno rinunciato all’ultimo momento a un dibattito con due deputati del fronte opposto nella circoscrizione di Kirkhill. «Ce lo hanno comunicato il giorno prima, quando tutto era ormai organizzato», si lamenta un militante nel piccolo quartier generale tirato su in giugno a Union Street.
E pensare che tutto era partito abbastanza in sordina. A Westminster davano per scontato l’esito del referendum e gli stessi laburisti, che con i governi Blair e Brown (entrambi di origini scozzese) avevano favorito la devoluzione e la nascita del parlamento locale, forse provavano un po’ di imbarazzo. La Scozia vota per tradizione il partito guidato oggi da Ed Miliband, è sempre stata a sinistra, e la battuta più diffusa ricorda che ci sono più panda allo zoo di Edimburgo (due) che deputati conservatori al parlamento scozzese (uno).
Il referendum e il partito che lo ispira sono due animali strani. Cominciamo dal primo, organizzato con le regole del parlamento di Edimburgo. Possono votare anche i sedicenni (alle elezioni bisogna invece avere almeno 18 anni), possono votare gli stranieri residenti in Scozia, circa 400 mila, ma non gli scozzesi residenti altrove, Inghilterra inclusa, circa 800 mila. A un gazebo "Yes Scotland" di Aberdeen incontriamo un gruppetto "straniero" che fa propaganda o raccoglie materiale per l’indipendenza. Alberto Mori, 25 anni, italiano e studente di antropologia, vota sì perché in Scozia le università sono buone e gratuite e non carissime come quelle inglesi. Al suo fianco Harry Naio, 21 anni, padre italiano e madre scozzese, studente di scienze politiche e cameriere in un noto ristorante del porto, vota sì perché è contro il nucleare, le guerre fatte in Iraq e in Afghanistan e tutto quello che è seguito al thatcherismo: «Mia madre e mia sorella di 19 anni votano invece No perché dicono di sentire l’identità britannica». Il terzo è Christian Allard, 50 anni, deputato del Snp, il partito nazionalista scozzese di Salmond. Ha origini francesi, di Digione, ma vive qui da 30 anni e accusa Londra di aver creato disuguaglianze insostenibili. «Aberdeen è la seconda città più ricca del Regno Unito, ma qui esistono 35 banchi alimentari, dove i poveri vanno a procurarsi il cibo».
Se il referendum è anomalo, l’Snp che lo ha promosso appare altrettanto singolare nel panorama politico europeo. Il partito nazionalista nacque negli anni Trenta con inclinazioni di destra, quasi fasciste, nei decenni successivi ha avuto varie trasformazioni, per finire oggi alla sinistra dei laburisti. Chiede giustizia sociale, solidarietà, migliore welfare, si batte contro le privatizzazioni, non vuole né guerra né nucleare. Poi c’è il lato "Braveheart", il cuore impavido, l’identità e la coscienza di essere scozzesi, l’ostilità nei confronti della City di Londra. «Mi rendo conto sia difficile definire questo partito», dice il politologo John Curtice dell’Università di Strathclyde, spesso chiamato in televisione a commentare i sondaggi, «perché non ne esistono di simili in Europa, forse un po’ i catalani. Direi che si tratta di un partito nazionale civico con due anime che convivono, una principale più socialdemocratica e una più nazionalista. La sua caratteristica è quella di riuscire a raggiungere diversi strati della popolazione, piace a quelli di sinistra delusi dai laburisti, ma anche al ceto medio di commercianti e artigiani».
Il grande condottiero è Alex Salmond, 60 anni il prossimo San Silvestro, primo ministro di Scozia con il secondo mandato, dopo aver ottenuto la maggioranza assoluta nel 2011 spodestando i laburisti in modo clamoroso. Il primo impiego dopo la laurea in economia lo ottenne alla Royal Bank of Scotland per fare studi sul petrolio, materia che diventa cruciale nel referendum, come vedremo più avanti. Da sempre nazionali
sta, venne in realtà espulso dal Snp alla fine degli anni Settanta perché troppo a sinistra, successivamente fu riammesso e anzi ne conquistò la guida nel 1990 tenendola sostanzialmente fino a oggi. Nel 1997 diede un contributo decisivo nel far vincere il Sì alla devoluzione della Scozia favorita dal governo Blair, contro il quale si schierò duramente sulla guerra in Iraq.
Piace perché parla chiaro e dice cose che molti scozzesi vogliono sentirsi dire per tirar fuori rabbia e orgoglio. È spregiudicato, ha anche lui qualche scheletro nell’armadio, tipo uno scandalo rivelato da un giornale nel 2009, secondo cui avrebbe effettuato spese in acquisti e ristoranti fino a 400 sterline al mese senza presentare le ricevute al Parlamento.
Grazie al carisma riesce a portare nelle piazze migliaia di volontari. Il confronto di mobilitazione con gli avversari di "Better Together" è palpabile sabato 30 agosto allo Haymarket, una delle stazioni di Edimburgo. Alle dieci di mattina, in una giornata di sole abbastanza straordinaria (ma sarebbe capitato anche in caso di pioggia), arrivano una ventina di militanti di "Yes Scotland". Breve riunione per le istruzioni, foto di gruppo e via con il volantinaggio e la caccia al consenso. Pochi metri più in là tre unionisti hanno appena preparato un banchetto e appeso uno striscione: "Vote no in 2014". Rapporto di sette a uno, anche se poi il 18 sarà magari l’uno a vincere. Sheena Cleland ha 47 anni e fa la traduttrice al parlamento scozzese: «Vogliamo comandare a casa nostra, a Westminster non ci sentiamo rappresentati e se fossimo indipendenti avremmo più opportunità di lavoro, ci sarebbero fino a 27 mila posti in più». Dall’altra parte parla Bill Scott, 74 anni, pensionato dopo una vita di lavoro all’Unilever. «Sono contro perché è un salto nel buio. E, a proposito di Salmond, vorrei ricordare che lui era fino a ieri contro la Nato mentre oggi ha cambiato idea...».
La paura e l’incertezza economica futura sono i principali punti di forza di chi combatte la secessione. Secondo i sondaggi, donne e anziani voteranno in maggioranza No. «Il voto femminile», commenta Curtice, «è legato alle incertezze che l’indipendenza può creare nei conti pubblici e familiari, quello degli anziani ha due motivazioni, una di cuore e cioè l’identità britannica, e l’altra di portafoglio perché preoccupa il futuro delle pensioni». Il voto giovanile sembra invece orientato al Sì perché si ritiene ci siano più prospettive di lavoro con una Scozia indipendente. Sono infatti i temi economici, oltre a quelli identitari, a condurre la campagna elettorale. Welfare, entrate petrolifere e moneta. La battaglia più accesa è quella contro la privatizzazione della sanità portata avanti dal governo Cameron. Salmond e compagni puntano a un welfare pubblico di tipo scandinavo, anche se non è ancora chiaro con quali soldi potrebbero finanziarlo, visto che il rapporto tra il deficit e Pil scozzese è peggiore di quello greco e che le uniche nuove tasse previste sono quelle sulle grandi corporation. Con il rischio, tra l’altro, che queste ultime se ne scappino a Londra.
L’asso nella manica è così il petrolio nel mare del Nord che, come dimostra la cartina a pagina 61, è prevalentemente in area scozzese. Il Condottiero, eletto nell’Aberdeenshire, conosce bene la materia e si destreggia tra i numeri con una certa grinta. Da qualche giorno è in corso proprio una guerra di cifre. Quanti barili di oro nero restano nei fondali da qui in avanti? Trenta miliardi, dice Salmond. No, tra 12 e 24 miliardi dice un organismo filogovernativo inglese. Settimana scorsa è entrato in campo Ian Wood, uomo d’affari esperto del settore: potrebbero essere 24 miliardi, ma è più probabile tra 15 e 16,5 miliardi. Economisti ed esperti hanno replicato schierandosi da una parte o dall’altra, una vera gazzarra. Giustificata dal fatto che il bilancio di un’eventuale Scozia indipendente sarebbe condizionato, in positivo o in negativo, dalle entrate petrolifere. «Il problema cruciale», avverte Curtice, «è come la Scozia potrà sopravvivere a lungo termine tenendo comunque presente un lento declino delle riserve petrolifere». L’ex primo ministro Gordon Brown, in campo per il No, fa notare che il 70 per cento dell’interscambio commerciale scozzese è con l’Inghilterra e la separazione dal punto di vista anche psicologico non gioverebbe per nulla. E sulla moneta ridicolizza Salmond, favorevole a restare con la sterlina, parlando di relazioni da neocolonialismo con il resto della Gran Bretagna, considerato che sul pound decide tutto la Banca d’Inghilterra, e nulla potrebbe la Scozia indipendente.
Ma cosa succederà il 19 settembre? Se vince largamente il No, nemici come prima. Se il successo è relativo, con uno scarto di pochi punti, Cameron, ma anche l’opposizione laburista, dovranno capire e fare i conti con le elezioni dell’anno prossimo, con la possibile nuova avanzata della destra Ukip (che in Scozia non conta nulla, ma nel resto della Gran Bretagna parecchio, come dimostrato dalle recenti elezioni europee) e con il referendum per restare o meno nell’Ue annunciato dallo stesso Cameron, oltre a proseguire con la devoluzione scozzese. Dovesse vincere il Sì, contro i principali partiti, l’establishment economico e quasi tutti i media, si prepara un terremoto in Gran Bretagna e in Europa. Una doccia scozzese dalle conseguenze imprevedibili.
COLLOQUIO CON TONI GIUGLIANO DI DAVIDE LERNER –
Nella sede degli indipendentisti, nella centrale Hope Street di Glasgow, incontriamo il coordinatore dei "sectoral groups" (gruppi di pressione) favorevoli all’indipendenza. Fra i volantini sulla Scozia che sta per diventare «una delle più ricche fra le nazioni» e quelli in polacco, cinese e urdu pensati per accalappiare i voti delle consistenti minoranze, l’italo-scozzese Toni Giugliano mette subito le mani avanti: «Non pensiate che siamo come la Lega Nord, voi giornalisti italiani, perché non c’entriamo proprio nulla». In effetti c’è un elemento atipico nel nazionalismo scozzese, che lo differenzia non solo dalla Lega ma da gran parte dei movimenti nazionalisti contemporanei: è un movimento profondamente di sinistra. Poco importa se la tomba di Adam Smith si trova a Edimburgo, mentre Marx giace nella capitale dominata dal neoliberismo Tory.
Qual è il motore della vostra campagna?
«Sarebbe sbagliato affermare che la storia di dissidi secolari fra le due nazioni non stia giocando un ruolo nella spinta indipendentista, ma la campagna si concentra sulla questione economica e sul problema della democrazia. Quest’ultimo si può riassumere col nostro slogan: «Il futuro della Scozia dev’essere nelle mani della Scozia». Della Scozia, e non nelle mani di governanti conservatori che non avremmo mai scelto. È vero, abbiamo un parlamento scozzese che può prendere decisioni su alcune questioni, ma non è abbastanza. Su temi come welfare e tassazione, difesa e politica estera, Unione Europea e immigrazione, il governo centrale ci sta portando nella direzione sbagliata: una Scozia indipendente si muoverebbe in maniera radicalmente diversa».
Passiamo alla questione economica e alle risorse del mare del Nord.
«Gli economisti dicono che lo sfruttamento del petrolio potrebbe continuare per ancora 50 anni, e noi vogliamo creare un fondo simile a quello norvegese che ci permetta di investirne i proventi. Negli ultimi quarant’anni Westminster ha sprecato gli introiti dell’oro nero, mentre noi vorremmo utilizzarli in modo intelligente: sfruttarli per sostenere un buono Stato sociale e farne
il primo cardine di un’economia strutturata e longeva. In ogni caso le risorse naturali sono solo la ciliegina sulla torta di un’economia diversificata: dall’eolico ai servizi finanziari di cui Edimburgo è ormai il quarto polo europeo, dalla pesca al whisky, che garantisce esportazioni per quasi quattro miliardi di sterline l’anno».
Democrazia, economia, e infine uguaglianza.
«La terza colonna portante della nostra campagna, insieme a democrazia ed economia, è la giustizia sociale. Le sembra normale che il primo produttore di petrolio nell’Unione Europea, la Scozia, abbia livelli di povertà infantile attorno al 20 per cento? I Paesi scandinavi, ai quali guardiamo come a un modello, hanno livelli di ineguaglianza bassissimi. Il Regno Unito, al contrario, è il quarto Paese più diseguale nel mondo sviluppato. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questo, e noi vogliamo fare dell’uguaglianza un tratto distintivo della Scozia indipendente».
COLLOQUIO CON DAVID WHITTON –
«Oggi la Scozia è parte di una famiglia di quattro nazioni la cui unione secolare ha raggiunto risultati fantastici dal punto di vista sociale ed economico. Perché dovremmo dilapidarli?». David Whitton, 62enne politico laburista, è un ex deputato del parlamento di Edimburgo, ora impegnato nella lotta per scongiurare la secessione. "The best of both worlds" ("Il meglio di entrambi i mondi") è lo slogan che predilige, perché «richiama la possibilità di guadagnare spazio di manovra con la devolution senza rinunciare alla solidità del Regno Unito», ci dice mentre risuona la cornamusa in Sauchiehall Street, vialone nel centro di Glasgow.
"Il meglio di entrambi i mondi", cioè autonomia unita alle sicurezze dell’Unione.
«Sì, personalmente sono sempre stato favorevole alla devolution. Sono anziano abbastanza per aver votato "sì" al referendum del 1979, quando la cessione di poteri fu bloccata da un sotterfugio del governo laburista, e poi nel 1997 quando grazie a Tony Blair abbiamo ottenuto un nostro parlamento. Insistere sull’indipendenza, dall’altra parte, è sintomo di vera miopia politica. Ogni anno Westminister spende 1.500 euro in più per ogni cittadino scozzese rispetto agli altri cittadini del Regno Unito, sarebbe a dire 7 miliardi e mezzo in eccesso che vengono destinati al nostro welfare ogni anno. Tale sarà il buco di bilancio con cui gli indipendentisti dovranno vedersela se dovesse concretizzarsi la secessione».
Si fa un gran parlare del gas e del petrolio nel mare del Nord.
«Indubbiamente si tratta di una grande industria: produce 1,5 milioni di barili di greggio al giorno, cioè 60 per cento di tutta la produzione europea. Ma nonostante il petrolio, la Scozia ha avuto un deficit di bilancio per 22 degli ultimi 23 anni, per non parlare dei rischi che corrono tutti i Paesi che dipendono in modo eccessivo dalle materie prime. Il petrolio rappresenterebbe il 20 per cento dei fondi disponibili per i nostri servizi pubblici, mentre rappresenta solo il 2 per cento per il Regno Unito. La volatilità del prezzo metterebbe le casse dello Stato in una condizione di precarietà permanente. In più la caduta nei proventi del petrolio tra il 2011-2012 e il 2012-2013 è stata di cinque miliardi e mezzo, pari all’intero budget dell’istruzione in Scozia».
Una vittoria solo risicata sarebbe pericolosa per gli unionisti?
«Più grande sarà il margine di vittoria e più sarà difficile per gli indipendentisti riproporre la questione della secessione. In Quebec hanno fatto due referendum in 10 anni con ripercussioni gravi sulla loro economia, e il rischio esiste anche in questo caso. Se dovesse vincere il no con un margine fragile,
e se poi nel 2015 dovessero trionfare nuovamente i Tories a Londra, gli indipendentisti potrebbero tornare a spingere sulla cosiddetta "questione democratica".
Gli scozzesi, insisterebbero, si trovano nuovamente ad essere governati da una politica estranea alla loro ideologia social-democratica. Nel 2016 ci sono poi le elezioni del parlamento di Edimburgo e il partito nazionalista scozzese, che ora sta governando da solo, potrebbe vincere e proporre un nuovo referendum. L’unico modo per disinnescare la spinta indipendentista una volta per tutte è raggiungere un margine di vittoria che non ammetta repliche».