Emanuele Trevi, Corriere della Sera 5/9/2014, 5 settembre 2014
PRESENZA E ASSENZA L’AMBIGUO CONTORNO CHE DISEGNA UN ADDIO
Come per tutte le cose a cui attribuivano una certa importanza, anche per le origini del ritratto gli antichi si tramandavano una specie di favola, un mito dell’origine. Nessuno ha mai creduto che le cose fossero andate così, ma la storia, fingendo di rivelare un inizio, in realtà serviva a rendere evidente un significato. Ed ecco che c’è un giovane greco pronto a partire per la guerra. Mentre lo saluta, la sua fidanzata non può sapere se tornerà o se è l’ultima volta che lo vede. Il dubbio è troppo angoscioso, ma anziché annientarla le suggerisce un gesto che nessuno ha mai pensato.
All’improvviso si alza, afferra dal focolare un tizzone incarbonito e con quello ricalca i contorni dell’ombra che l’amato proietta sul muro alle sue spalle. C’è qualcosa, in questo primo ritratto, che ricorda addirittura più la precisione meccanica della fotografia che le lente approssimazioni alla somiglianza della pittura. Ma sono distinzioni abbastanza insignificanti, in fin dei conti. Le tecniche evolvono, si contaminano a vicenda, spariscono o sopravvivono: si possono fare ritratti a olio o con il telefonino, usando solo le parole o addirittura la musica (Savinio sosteneva che il secondo movimento della Settima di Šostakovic fosse un ritratto postumo di Federico di Prussia). Ma il problema della ragazza greca che conserva un’immagine dell’amato è sempre lo stesso. Il modello si allontana dalla sua immagine. Se ne può allontanare andando in guerra, ma non c’è nemmeno bisogno di una circostanza così drammatica. Basta il semplice passare del tempo, quella spietata e immane corrente nella quale perdiamo tutti la via di casa, perché anche se ci capita di tornare a casa non siamo più quelli che erano partiti. Ecco perché la ragazza greca, inventando il ritratto, ha fatto qualcosa che potremmo definire nello stesso tempo un rimedio e un veleno.
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Un rimedio, certamente, perché l’immagine consola della mancanza, e in modo parziale e simbolico tenta di risarcirla. Ma anche, di necessità, un veleno, perché l’immagine è la conseguenza, la rappresentazione visibile di quella mancanza. È come se noi, ogni volta che guardiamo un ritratto, non stessimo solamente osservando i lineamenti di una persona, ma anche il suo non essere più lì, la sua fatale impermanenza. Forse nessuno più di Pascal, in alcuni dei suoi Pensieri, ha intuito questa ambivalenza dell’immagine e il suo fortissimo potere psicologico. Perché ogni figura, secondo il grande filosofo, ospita in sé due contrari, la presenza e l’assenza, senza che uno dei due possa mai prevalere sull’altro. E la nostra reazione a questa contraddizione irrisolvibile non può che essere ugualmente ambigua, inducendoci a provare, simultaneamente, «piacere» e «dispiacere».
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Potrebbe richiedere un certo sforzo immaginare artisti come Renoir e Boldini, Manet e Corcos (tutti a loro modo rappresentanti di un’epoca del piacere e della felicità terrena) alle prese con problemi di tale natura metafisica. Potevano essere più o meno ostili, più o meno interessati alla fotografia, ma non credo che nessuno di loro abbia mai pensato seriamente che l’evoluzione della nuova arte rischiasse di togliergli il mestiere. Figli di un’epoca abituata a considerare con più attenzione la metà piena del bicchiere di quella vuota, affermavano a colpi di pennello la bellezza della carne e dei suoi rivestimenti, come se davvero al mondo ci fosse qualcosa capace di appagare il desiderio, e come se il desiderio stesso, affrancato dai suoi circoli viziosi, potesse vivere facendo a meno della mancanza. Forzando un poco il senso delle parole, si potrebbe dire che erano «impressionisti» anche nel senso che nutrivano in sé l’impressione che, se il mondo non era perfetto, era comunque il migliore dei mondi possibili.
Non ho mai capito perché questa leggerezza dovrebbe essere giudicata inferiore o meno saggia di una visione tragica dell’esistenza. Eppure, lo sapevano loro e lo sappiamo noi: quelle dame fasciate di seta e di raso, quelle regine dei salotti, quelle irresistibili demi vierges non erano poi così diverse dal giovane ateniese che doveva partire per la guerra dell’antico racconto. Con tutto il loro fascino, erano pur sempre arruolate in un’impresa catastrofica. Erano appena uscite dall’atelier del pittore alla moda, e già il tempo le trascinava via dalla loro immagine che si stava asciugando sulla tela. E forse facevano bene a non pensarci più di tanto, se è vero che nessuno è mai stato capace di tornare indietro, per colmare di una vera presenza la propria figura rimasta in attesa.