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 2014  settembre 04 Giovedì calendario

IL RISCHIO DI UN IRAQ DIVISO IN TRE

Nel maggio del 2006 l’allora senatore democratico americano Joe Biden scrisse un editoriale sul New York Times evidenziando come il processo di partizione dell’Iraq in tre distinte entità fosse già in corso. «I sunniti che fino a poco tempo credevano di poter riconquistare il potere in Iraq - scriveva l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti - iniziano a riconoscere che ciò non sarà possibile. Non vogliono però vivere in uno stato controllato dalla maggioranza sciita e molto centralizzato. Gli sciiti sono consapevoli che possono dominare il Governo, ma che non possono vincere la ribellione sunnita. I curdi non rinunceranno alla loro autonomia che dura da 15 anni».
Biden spingeva per una partizione morbida, e concordata, in cui fossero rafforzate le autonomie dei tre territori. A otto anni di distanza un’esplosiva frammentazione dell’ex regno di Saddam Hussein in uno Stato indipendente curdo nel nord, in un’area controllata dai sunniti nel Nord-Ovest, e in un’altra in mano alla maggioranza sciita nelle regioni centro meridionali, è uno scenario che sta prendendo piede. L’avvento degli jihadisti dello Stato Islamico (Is o Isis) ha provocato una crisi politica difficile da ricomporre.
«La partizione resta una possibilità - spiega al Sole 24 Ore Daniel Serwer, analista del Middle East Institute e professore di studi internazionali alla Johns Hopkins University -. Ma uno scenario del genere darà probabilmente inizio a una guerra civile ben più grave e certamente più lunga del conflitto in corso, con conseguenze potenzialmente disastrose per l’intera regione» . È una guerra che, al di là dell’Isis, nessuno pare volere. Eppure le parti coinvolte non fanno nulla perché il processo di frammentazione si arresti. «I sunniti non vogliono che gli sciiti si prendano Baghdad, né i sunniti e gli sciiti vogliono che i curdi si annettano Kirkuk. E le potenze regionali che sostengono le rispettive forze non resterebbero indifferenti», continua Serwer.
Approfittando della debolezza del Governo centrale di Baghdad, incapace di arginare l’offensiva dell’Isis, il 12 giugno i peshmerga, le forze armate del Kurdistan iracheno, hanno assunto il controllo di Kirkuk, la città più cosmopolita dell’Iraq. E la più contesa. Sicuri di ottenere la maggioranza, da diversi anni i curdi invocano un referendum volto a stabilire lo status della città e di sette territori circostanti. Kirkuk è importante soprattutto per il suo petrolio. Le sue riserve sono superiori a 12 miliardi di barili, tra le maggiori del Paese. Poco dopo i peshmerga hanno preso anche il vicino giacimento di Bai Hassan. Sono campi petroliferi rivendicati da Baghdad come risorse nazionali. Ma è improbabile che, se dovesse terminare il conflitto con l’Isis, il Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg), oggi la forza su cui punta l’Occidente per liberare le aree conquistate dall’Isis, restituisca senza alcuna contropartita territori che reclama come propri. Altrettanto difficile che Baghdad accetti senza riserve l’annessione di Kirkuk e i tentativi del Krg di vendere a suo piacimento un petrolio che considera tuttora risorsa nazionale. «L’Iran - continua Serwer - sarebbe pronto ad affiancare l’Iraq nel cercare di riconquistare le zone contese ora controllate dai curdi. I quali sono davanti a una scelta: ricevere il 17% dei ricavi petroliferi nazionali, come fino a pochi mesi fa, oppure separarsi da Baghdad e produrre il petrolio del Kurdistan del Nord aggiungendo quello di Kirkuk. In termini di volumi, e di ricavi, è meglio la seconda ipotesi».
Cercando di sfruttare un momento favorevole, il Krg sta spingendo per gettare le basi dell’indipendenza. Ma non sarà facile. La nascita di uno Stato è motivo di profonda inquietudine per Iran e Turchia, che rispettivamente ospitano sul loro territorio 9 e 22 milioni di curdi, pronti a emulare il Krg. In sostanza nessuno desidera una spartizione dell’Iraq. «Neppure gli Stati Uniti - prosegue Serwer - eppure questo scenario potrebbe accadere». E se dovesse realizzarsi, l’area controllata dalla maggioranza sciita, da cui viene estratto quasi il 90% dell’attuale produzione di greggio iracheno, rafforzerebbe i suoi già solidi rapporti con l’Iran in chiave anti sunnita. «L’Iraq diverrebbe uno Stato satellite dell’Iran, precisa il professore di studi internazionali. Con il rischio che Teheran strumentalizzi le risorse petrolifere irachene (le terze del pianeta).
Infine i sunniti. In caso di una partizione dell’Iraq a loro resterebbe una regione perlopiù desertica quasi senza giacimenti di petrolio. Un "Sunnistan" dove i jihadisti continuerebbero a creare gravi problemi di insicurezza ai territori vicini. «La soluzione migliore per prevenire una frammentazione del Paese - conclude Serwer - sarebbe la creazione di un governo di unità nazionale in cui le minoranze siano realmente coinvolte. La popolazione sunnita ritirerebbe il sostegno all’Isis, indispensabile per i jihadisti. Sono i sunniti la sola forza capace di sconfiggere l’Isis».
Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore 4/9/2014