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 2014  settembre 04 Giovedì calendario

EBOLA SI È FERMATA A POMEZIA

Cinquecento metri quadrati di laboratori divisi in otto stanze da pareti color crema in uno stabile nella zona industriale di Pomezia. Per accedervi è necessario indossare una tuta bianca di quattro strati simile a quella degli astronauti e le procedure per percorrere il breve corridoio e uscirne durano circa un’ora. Tanta sicurezza è necessaria perché qui si produce qualcosa di molto sensibile: quello che potrebbe essere il primo vaccino efficace contro Ebola, la febbre emorragica che, durante l’ultima pandemia, ha già ucciso oltre 1900 persone tra Sierra Leone, Guinea, Liberia, Nigeria e negli ultimi giorni sembra avere varcato anche la frontiera con il Senegal. Come risposta, alcuni governi come quello saudita e varie compagnie aeree (ad esempio Air France e British Airways) hanno sospeso voli e visti dai Paesi colpiti. Entro fine anno, 10 mila dosi del vaccino verranno consegnate all’Organizzazione mondiale della sanità che le testerà sul personale chiamato ad arginare la malattia in Africa (ovviamente, la somministrazione sarà volontaria). Serviranno quindi, almeno in questa fase, solo a proteggere il personale che cura i malati.
Il progetto del vaccino è nato sei anni fa dalla Okairos del professor Riccardo Cortese e successivamente prodotto in tandem con l’Irbm di Piero Di Lorenzo. Vi hanno partecipato decine di ricercatori, la maggior parte donne. Le prime dosi sperimentali sono state testate sulle scimmie oltreoceano in collaborazione con il Istituto nazionale di Sanità Usa, l’unico Paese dove è permesso provare farmaci contro Ebola. Il risultato è stato strabiliante: 100% di positività, tutti gli animali vaccinati sono rimasti immuni dal contagio per oltre un anno. Sulla scorta di questo successo, i brevetti sono stati acquistati da Glaxo per 250 milioni.
Tanti soldi, certo, ma molti di meno di quanti non ne sarebbero stati sborsati se la cura riguardasse una malattia diffusa nelle zone ad alta intensità di spesa del globo: ad esempio, l’ultimo farmaco contro l’Aids sviluppato in Irbm dalla multinazionale Merck & Co è stato valutato 800 milioni di euro. “Finanziare le ricerche su malattie rare e della povertà diventa sempre più un compito dei governi perché le grandi case farmaceutiche hanno meno interesse a lavorare su questi fronti”, spiega Di Lorenzo. I soldi per elaborare il vaccino per l’Ebola, di cui si verificherà l’efficacia sull’uomo nel 2015, sono arrivati da finanziatori svizzeri e olandesi, dall’Istituto nazionale di sanità Usa e dalle autorità inglesi. Per questo progetto non ci sono stati finanziamenti italiani “anche se – ci tiene a precisare Di Lorenzo – nella ricerca su altre patologie come la malaria, la Regione Lazio cofinanzia gli studi”.
Lo scopo di un vaccino è stimolare il sistema immunitario a riconoscere la malattia, pur senza farlo ammalare. Normalmente per questo scopo si utilizzano dei frammenti di virus o batterio la cui carica infettiva viene preventivamente annullata. Per realizzare il vaccino di Ebola è stata utilizzata una metodologia ideata dal “guru” del settore Cortese: invece di inoculare una parte dell’agente patogeno, si provvede a impiantare i suoi geni in un virus “benigno”, in questo caso un adenovirus. “Nel caso di Ebola, il sistema immunitario produce rapidamente anticorpi e linfociti che contrastano la straordinaria forza letale del virus, che può uccidere il malato in due giorni”, spiega il direttore della produzione di Okairos, Loredana Siani.
E proprio la diversa virulenza, cioè la “potenza” dell’ultima epidemia rispetto alle precedenti, ha prodotto un duplice, paradossale effetto: da un lato il tasso di mortalità è molto più basso rispetto al passato (50-60% invece di 90%); dall’altro la maggiore lentezza con cui il virus porta alla morte, ha fatto aumentare i contagi e ha creato un’emergenza mai vista dalla scoperta del virus, nel 1976. “Più forte è il virus, più semplice è contenere l’epidemia - prosegue Siani -, per questo fino a oggi le case farmaceutiche non hanno sentito l’esigenza di spendere per cercare nuove cure”. Forse, i 1900 morti da febbraio a oggi sono serviti a qualcosa.
Alessio Schiesari, il Fatto Quotidiano 4/9/2014