Carlo Petrini, la Repubblica 4/9/2014, 4 settembre 2014
BRAS “LO CHEF È UN ARTISTA SBAGLIA CHI IN CUCINA TRADISCE LE ORIGINI”
[Intervista] –
Michel Bras è nato nel 1946 e ha mosso i suoi primi passi come cuoco aiutando la madre nell’ Auberge Lou Mazuc , a Laguiole, Francia centromeridionale. Già a partire dalla fine degli anni Settanta, il suo talento per aver saputo valorizzare al massimo i prodotti della sua terra viene riconosciuto dalle principali guide del settore. Con il passare degli anni Lou Mazuc acquisisce una fama sempre maggiore, ottenendo prima una e poi due stelle della guida Michelin. Nel 1992 apre il suo nuovo ristorante, Michel Bras, che nel 1999 ottiene tre stelle Michelin. Quest’anno, a giugno, riceve la Laurea Honoris Causa dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Michel, tu vieni da una regione considerata marginale nel panorama francese, un altopiano agricolo da cui tu hai deciso di non allontanarti nemmeno quando, negli anni ’60, grandi flussi migratori interni alla Francia portavano la maggior parte dei giovani delle tue parti a cercare fortuna a Parigi, a Marsiglia o a Thiers, a fare coltelli. Perché per te è così importante il rapporto con il territorio di origine?
«Io sono nato nell’Aubrac, i miei primi ricordi dell’infanzia hanno il profumo dei fiori di quella terra, ricordo mia madre preparare il pranzo raccogliendo frutti ed erbe direttamente dall’orto di casa. Questo piccolo mondo è entrato da subito a far parte integrante di me, è diventato il mio universo, e a quel punto non è più stato possibile abbandonarlo. Ho sempre pensato di volere restare a casa mia, ho sempre creduto che fosse importante cercare di agire nella propria piccola porzione di pianeta. C’è voluta una buona dose di coraggio per restare in questo deserto, con tre abitanti per chilometro quadrato, quando sembrava che l’unico modo di realizzarsi, di costruire un futuro degno, fosse la fuga verso la capitale o un’altra grande città. Ma non c’è nulla di eroico nella nostra, mia e di mia moglie Ginette, scelta di restare a Laguiole, semplicemente noi siamo figli di questa terra, di questa civiltà agricola che ha saputo costruire un’economia e un futuro in una zona non semplice. Noi abbiamo fatto nostra l’anima di questo luogo magico, ce ne siamo lasciati invadere e cerchiamo ogni giorno di dar modo a chi viene nel nostro ristorante di sperimentarla almeno un po’».
Il problema dello spopolamento delle campagne, e soprattutto delle zone montane o pedemontane, è un fenomeno molto diffuso anche in Italia. Molti giovani non vedono un futuro se non nelle città, e io credo che molto di questo pensiero sia responsabilità della nostra generazione, che non ha creato le basi per un futuro dignitoso nelle campagne. Il preziosissimo dei contadini, degli artigiani del cibo, degli allevatori, non viene riconosciuto adeguatamente e questo rende spesso impossibile abitare i luoghi marginali. Tuttavia credo che qualcosa possa cambiare, credo che s’intravedano in molte parti del mondo dei segnali positivi (e quello dell’Aubrac è uno di questi), di riscatto.
«Guarda, quando ho capito che da Laguiole non me ne sarei mai andato ho anche capito che la strada per restare ed essere felice qui era quella di abbracciare il territorio, la comunità che lo abita. Da questa presa di coscienza è iniziato un lungo lavoro con i produttori della zona per cercare di unire gli sforzi e migliorare le nostre esistenze qui. Non è stato un percorso sempre facile, ci è costato fatica, a volte frustrazioni e anche delusioni, ma oggi posso dire che ne è valsa la pena. L’anima di un territorio è fatta da chi lo abita e da chi lo lavora, se le persone se ne vanno, con loro se ne va l’anima».
Viviamo in un periodo in cui la cucina ha assunto una popolarità che forse mai ha avuto. Non esiste canale televisivo che non abbia la sua trasmissione di ricette, non esiste giornale che non racconti le imprese di qualche nuovo chef, assistiamo a talent show dedicati alla cucina e via discorrendo. Partendo dal fatto che io credo che questa spettacolarizzazione sia una riduzione e semplificazione che non fa onore alla complessità della gastronomia, tuttavia è evidente che, di fronte a questa ribalta, gli chef hanno una grande responsabilità anche educativa, perché fare cucina è un atto che implica una visione del mondo, una visione dei rapporti sociali e dei rapporti con il pianeta che ci ospita. Poiché tutti siamo viventi in quanto mangiamo, parlare di cibo significa mettere in gioco un universale che tocca tutti e dunque andrebbe fatto con una cognizione di causa che in questo circo barnum gastro-televisilavoro vo mi pare che spesso manchi.
«Credo ci siano molti modi di intendere il ruolo di chef, di persona che ha a che fare con uno degli atti primari e più profondi dell’attività umana fin dalle sue origini, la trasformazione delle materie prime della terra in prodotti edibili. Io penso che un cuoco, padrone dei suoi mezzi, reifichi nei suoi piatti i propri paesaggi, in definitiva il proprio universo, come un artista. E non sto parlando solo di un universo gastronomico, piuttosto di un complesso sistema valoriale. Il rapporto con il pane, con il latte, con le erbe, riflette certamente una dimensione regionale e territoriale a seconda di chi ne parla o dove si realizza, ma nello stesso tempo è anche un tema che riguarda chiunque, ovunque. La tecnica deve restare al servizio della propria visione, e non il contrario. Credo che oggi ci sia il rischio di interpretare il nostro lavoro come un inseguimento della tecnica innovativa, difficile, strabiliante, perdendo di vista il fatto che nel momento in cui cuciniamo disegniamo il nostro mondo. Quando faccio la coeuillette, la raccolta delle erbe spontanee della zona, a mio modo sto mettendo in pratica la mia visione del mondo e della natura, e quando qualcuno mangerà quelle erbe nei piatti che cucino a sua volta la intercetterà, secondo la propria sensibilità e secondo la propria attitudine».
Carlo Petrini, la Repubblica 4/9/2014