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 2014  settembre 04 Giovedì calendario

LA STESSA PAURA SETTE ANNI DOPO

Sette anni fa sono stato rapito da un gruppo di Taliban, assieme ai miei amici e colleghi Ajmal Naqshbandi e Sayed Agha. Per 15 giorni siamo rimasti nelle loro mani nel cuore dell’Helmand, provincia meridionale dell’Afghanistan. Legati mani e piedi, interrogati e picchiati.
ABBIAMO sperimentato la durezza dei jihadisti. Ci hanno condannato a morte per spionaggio; per dimostrare al mondo quanto fosse serio il loro verdetto, hanno decapitato davanti a me il giovane Sayed, padre di 5 figli e considerato il più bravo autista del Paese. Ajmal morirà più tardi, anche lui per decapitazione, dopo essere stato riacciuffato dai nostri sequestratori.
Davanti agli ultimi due video messi in rete dai macellai dell’Is, pensare con angoscia a quei giorni è stato inevitabile. Per le immagini che ti catapultano in quella landa deserta vicino al fiume Helmand, trasformata nel teatro del patibolo, e per alcune importanti differenze che segnano il salto di qualità compiuto in questi anni dalla galassia jihadista. Da un punto di vista mediatico e strategico.
Steven Sotloff e James Foley sono rimasti un anno prigionieri dei loro carcerieri. Trascorrere tanto tempo con un vero esercito di esaltati, che ti disprezzano ma ti accudiscono come un prezioso tesoro, in un territorio devastato dalla guerra, significa vivere con la morte che incombe ad ogni minuto del giorno e della notte. Solo quando cala il buio e tutto è avvolto dal silenzio hai un attimo di tregua. Riesci a calmare l’affanno, il cuore rallenta; non ti soffoca l’attesa del tuo momento, quello in cui ti troverai davanti al boia padrone del tuo destino. Ma resti teso, hai imparato a conoscere la doppiezza e le bugie dei tuoi carcerieri. Sai che puoi morire, ma non fai in tempo a pensare, a rivedere la tua vita come un film, a immaginare l’orrore e il dolore di un coltello che ti squarcia la gola e ti soffoca nel tuo stesso sangue. Vuoi continuare a vivere.
Steven Sotloff e James Foley non avevano gli occhi bendati, come è capitato a noi tre, quando sono stati uccisi. Eppure indossavano la tuta arancione dei detenuti di Guantanamo, i capelli rasati, la barba appena fatta. Erano stati preparati con cura per lo spettacolo che avrebbero dovuto interpretare. Fa parte del rituale. I Taliban, come i jihadisti in genere, sono ossessionati dal carcere speciale americano della base di Cuba. Vogliono dimostrare, a te e al mondo, che sono più umani. Che trattano i loro prigionieri quasi con garbo. Fino al momento dell’esecuzione. Il dettaglio del viso aperto, senza bende sugli occhi, fa pensare appunto ad un effetto più crudele e devastante da un punto di vista mediatico: per chi subisce la decapitazione e per chi la vedrà sul video.
Sotloff l’ha provato due volte. Il terzo prigioniero minacciato di morte, il britannico David Cawthorne Haines, un cooperante con esperienze militari, aspetta di viverla per la terza volta. Nelle fucilazioni di massa in Siria e in Iraq le vittime sono bendate o costrette a sdraiarsi a faccia in giù. Non guardi dritto verso la morte, ma non sai chi e quante persone ci sono dietro o davanti, quando spareranno: hai il tempo forse per pregare, per raccogliere gli ultimi attimi di lucidità, di pensare a qualche bella immagine che ha rallegrato la tua esistenza. Resti paralizzato dalla paura. Non sai cosa proverai. Non ce la fai a gridare, a ribellarti, a muoverti. A tentare quella istintiva reazione contro la morte che ti sta prendendo. Tremi, hai il corpo teso e contratto.
È raro che ti sedino con qualche droga: sei lucido. Comunque presente. Non saresti in grado altrimenti di pronunciare un discorso che ti è imposto, ma che in fondo pensi, ora che tutto sta per finire. Muori perché non ti hanno salvato, perché la guerra che hai seguito tra tante fatiche e sacrifici è una cosa molto più grande di te. Sei stato condannato a morte. So bene cosa significa: l’ho provato. È una sensazione che non scorderò mai. Ma pensi soprattutto che quello che sta accadendo non ha senso. Perché sei sopravvissuto 12 mesi, in catene e spesso in un buco buio, aggrappato all’illusione che non sarebbe successo.
Si racconta che la mente ha ancora qualche secondo di vita dopo che la testa si è staccata dal corpo. Non credo che si abbia la forza e il tempo di elaborare un pensiero. Aspetti, che la tua vita si stacchi dal corpo, mentre una videocamera fissa queste ultime immagini destinate al mondo dei vivi e messe in rete dai tuoi carnefici: la testa sollevata come un trofeo, adagiata con cura sul tuo tronco, il sangue sulla terra del deserto, gli spettatori che urlano «Allah akbar».
Daniele Mastrogiacomo, la Repubblica 4/9/2014