Alberto Pezzini, Libero 4/9/2014, 4 settembre 2014
«AI LIBRI DO TUTTO: RESPIRE E FIDANZATE»
[Intervista a Sandrone Dazieri] –
Quando uscì Io uccido di Giorgio Faletti fu un colpo ai reni per tutti gli scrittori di thriller. È curioso che anche il nuovo, esplosivo romanzo di Sandrone Dazieri, che domenica alle 16.45 sarà al Festivaletteratura di Mantova con i colleghi Veit Heinichen e Carlo Lucarelli, contenga nel titolo lo stesso verbo: Uccidi il padre (Mondadori,pp. 562, euro 18).
Dante Torre è un bambino quando viene rapito e rinchiuso dentro un silo dal Padre. Riuscirà un giorno a fuggire e diventerà una specie di esperto comportamentale delle persone violate. Colomba Caselli è un vicequestore reduce da un disastro personale che viene contattata dal suo ex capo per liberare un bambino sequestrato. Cosa c’entra Torre (mentre la Colomba vola, la Torre significa chiusura, mattoni che non fanno passare l’aria) lo si scopre quando un fischietto viene ritrovato... ed è lo stesso che usava per gioco Dante ai tempi del suo sequestro. Un thriller ipnotico.
Ha scritto un romanzo che fa sembrare la saga del Gorilla una camomilla. Da dove ha tirato fuori una storia così?
«Dalla mia testa (sorride). Eravamo un giorno in mezzo alla campagna di Cremona, Antonio Riccardi e io. A un certo punto finiamo vicino a una fattoria bellissima, con un silo. Riccardi (direttore editoriale Mondadori, ndr) mi dice è magnifica, con quel tetto di coppi rossi che sembrano dipinti. Io, abituato al lato oscuro delle cose, non posso non pensare al fatto che se uno venisse rinchiuso in un silo così, potrebbe gridare ma nessuno lo sentirebbe. Perché è isolato. Lì ti può succedere di tutto...».
C’è una ragione per cui scrive come se tendesse sempre una trappola?
«Ero abituato a scrivere in prima persona. Questa volta ho scelto la terza persona. Non è stato facile. Sono stato giornalista: ho scritto circa 2.500 tamburini per Onda Tv quando non c’era internet. Dovevo riassumere un film in cinque o sei righe fulminanti. È così che ho imparato ad attirare il lettore».
Ma non era uno chef?
«Chef è un parolone. Io andavo matto per la scrittura fin da piccolo, ma quando ho dovuto scegliere se andare al Classico o fare un “viaggio esperienziale” ho scelto il secondo».
Sarebbe a dire?
Mi sono iscritto alla Scuola alberghiera di San Pellegrino Terme. Per me significava andare via da Cremona, iniziare una vita nuova, andare nei grandi alberghi, girare il mondo. Ho capito subito che era tutto il contrario: cucine calde come l’inferno dove non c’era manco una donna, cuochi rozzi che ti tiravano le padelle. A scuola mi hanno subito dileggiato perché mi vedevano sempre con
un libro in mano. Poi hanno capito che potevo diventare una risorsa: facevo il rappresentante di classe e aiutavo tutti con la parola. Diventai “l’avvocato”».
Un personaggio che ritorna anche nei romanzi della saga del Gorilla.
«Attenti al gorilla è stato il mio primo romanzo, con un detective schizofrenico che veniva dal Leoncavallo. Venne pubblicato nel 1999 per i Gialli Mondadori. Fu uno di quelli che vendette di meno. Lo so perché controllai le vendite quando diventai direttore editoriale della Mondadori dal 1999 al 2005».
Cosa dirigeva?
«I Gialli, Urania e i romanzi d’amore».
È vero che si è licenziato?
«Sono uno dei pochi direttori editoriali ad aver dato le dimissioni. Capii presto che non era un mestiere creativo. Nel frattempo avevo intrapreso la via della tv. Oggi seguo qualche autore come editor, diciamo così. E sono felice».
Uccidi il padre non è in fondo un romanzo sui bambini, sui nostri figli, sulle paure di vederli rapiti?
«Volevo che Dante il bambino sequestrato per eccellenza si confrontasse con le sue peggiori paure. E che fosse costretto a prendersi cura di tanti fratelli più piccoli, tanti figli simbolici. Per lui era l’unica possibilità di diventare adulto».
Perché non scrive anche lei un libro all’anno?
«Io ai libri do tutto, sangue e respiro. Non ne ho mai scritto uno col piede sinistro. Io ci muoio, dentro i miei libri. Gli ultimi quattro mi hanno catturato così tanto da indurre anche le mie rispettive quattro fidanzate dell’epoca a mollarmi. Oggi ho imparato a gestire anche questa mia difficoltà relazionale».
Come è arrivato al thriller?
«Il noir è servito negli anni ‘90 per scardinare gli schemi della letteratura di genere. Ma resta un compartimento troppo chiuso in se stesso, dove è la morale che fa il libro. Il thriller è invece la libertà: lo scrittore ti dà la storia e il giudizio viene lasciato al lettore. Continuo a leggere noir, ma credo che il genere abbia esaurito la spinta».
Un esempio di grande noir?
«Il grande sonno di Chandler. La trama non se la ricorda nessuno, però».
Un grande thriller?
«Il silenzio degli innocenti». Il Gorilla tornerà presto? «No. Adesso c’è Colomba».