Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 03 Mercoledì calendario

I SOLDATI STRACCIONI UMILIATI A GROZNY SONO DIVENTATI UNA POTENZA HI-TECH

Per i 20 anni post-sovietici nessun comando e stratega, occidentale e orientale, ha preso molto in considerazione quello che restava dell’ex Armata Rossa. Sembrava finita nella notte di Capodanno 1994 a Grozny, dove decine di carri armati entrati per espugnare la roccaforte degli indipendentisti ceceni vennero bruciati in poche ore, e i sopravissuti raccontavano di non essere stati forniti di copertura, munizioni e nemmeno di cartine aggiornate del luogo dove andavano a combattere. Le foto dei soldati russi costretti a combattere nelle montagne del Caucaso con Nike (false) perché i pesantissimi stivali d’ordinanza erano una condanna a morte, hanno fatto il giro del mondo, come quelle con i volti magri e impauriti dei soldatini di leva che i ceceni restituivano alle madri come gattini smarriti.
L’affondamento, nel 2000, del sottomarino strategico Kursk, in un groviglio di inefficienze, bugie del comando e soccorsi incapaci, era sembrato l’ultima prova della fine di una potenza. Quindici anni dopo gli «omini verdi» in Crimea e a Donetsk sono robusti, ben equipaggiati armati con nuovissimi kalashnikov di metallo nero satinato, e con quella determinazione nello sguardo freddo che li fa sembrare protagonisti di film di Hollywood. Il modo in qui in pochi giorni hanno cancellato mesi di faticosa avanzata dell’esercito ucraino fa pensare che Vladimir Putin abbia ragione a dire che potrebbe «prendere Kiev in due settimane».
Nelle steppe dell’Est ucraino il Cremlino sta esibendo il suo nuovo esercito, quello che le future basi e le forze di pronto intervento della Nato dovranno affrontare. Le lezioni dell’Afghanistan e della Cecenia sono state imparate. L’esercito di leva di massa uscito dalle guerre del ’900, di trincee e carri armati che marciavano a Ovest per mesi e anni, è stato sostituito - anche perché economicamente insostenibile - da professionisti addestrati, «pronti a reagire su tutto il perimetro della frontiera russa», dice fiero il capo dello Stato maggiore Valery Gherasimov. Pochi giorni fa Mosca ha annunciato la creazione di una «forza di pace» di 5 mila unità, parà e fanteria d’assalto, ai quali vengono fatti anche corsi di lingue (non si specifica quali) e diritto internazionale. Da qualche mese la Russia svolge due-tre esercitazioni a settimana, da simulazioni di attacchi nucleari all’anti-aerea e battaglie «con milizie irregolari». I 124 poligoni «non devono mai rimanere fermi», ha ordinato il ministro della Difesa Serghey Shoigu, che a luglio ha posto alle sue truppe l’obiettivo di «imparare ad agire in territorio nemico sconosciuto» e «manovrare a lunghe distanze», senza nascondere che queste capacità servono «alla luce di quello che accade ai confini dei nostri vicini».
Un cambiamento dovuto innanzitutto agli investimenti: in 10 anni la Russia ha quasi raddoppiato le sue spese militari, arrivando a circa 78 miliardi di dollari annui. Spesi innanzitutto in armamenti. Al poligono di Kapustin Yar nel 2015 sono previsti test di 100 armamenti di alta tecnologia, rispetto ai 30 del 2013. Nei cantieri ci sono 60 navi militari, e 26 - tra cui sottomarini nucleari strategici armati di missili - sono state varate l’anno scorso. Lavori che potrebbero bloccarsi a causa di componenti strategiche made in Ukraine, e il Cremlino ha ordinato di raggiungere entro tre anni la completa «autarchia» negli armamenti. Ma soprattutto sono stati accantonati manuali della Seconda guerra mondiale. Ora si copia da quelli del Pentagono, e l’ex capo dello Stato maggiore Yuri Baluevsky teorizza il passaggio dalla «guerra dei motori» di carri e aerei alla «guerra cognitiva» che «conquista le menti delle persone», e alla «guerra del caos governato» dove «il confine tra pace e conflitto e tra fronte e retrovia non è netto».
È la «guerra ibrida» teorizzata dalla Nato, che mischia propaganda, pressioni politiche, ricatti economici e azioni militari con forze mobili da postazioni avanzate. È di questi giorni la notizia che l’aviazione di Mosca avrà una base a Baranovichi, città bielorussa al confine con la Polonia. E l’enclave baltica di Kaliningrad aspetta che il Cremlino realizzi la sua vecchia minaccia di rompere l’accordo sul bando dei missili a corto e medio raggio (500-5500 km) firmato con gli Usa nel 1988. All’epoca serviva a non fare dell’Europa un poligono di tiro tra due grandi potenze. Oggi, se Mosca rompesse i patti, a Kaliningrad potrebbero tornare missili in grado di colpire quasi fino all’Atlantico.
Anna Zafesova, La Stampa 3/9/2014