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 2014  settembre 03 Mercoledì calendario

REPUTAZIONE.COM

I vostri amici di Facebook non possono sapere che siete esposto in bella mostra su Tinder, il sito per rimorchiare on-line su scala locale, che è il grande successo dell’estate. Così, almeno, assicurano i creatori del sito. Ma, se un’amica della vostra partner ci va per conto suo, vi ci trova e rende la cosa pubblica, possono essere guai grossi. La nostra vita virtuale è sempre più trasparente: il web moltiplica le opportunità, ma anche i rischi. Ci vuole ancora un hacker o, comunque, un abile smanettone per seguire le evoluzioni della vostra carta di credito o il vostro eventuale peregrinare sui siti porno. Ma chiunque, con un po’ di pazienza, può rintracciare quel vostro post al veleno contro la casta apparso sul sito di Grillo. Sette anni dopo, avete cambiato radicalmente idea, ma l’antico post può comunque bruciarvi la carriera a cui puntavate dentro il Pd. Sulla rete, niente resta impunito. Per sempre.
Questo, fino a ieri. Perché, adesso, la trasparenza è uscita dal web e si applica anche alla vita reale di tutti i giorni. I vostri atti, i vostri comportamenti vengono pesati, giudicati, valutati. Da una a cinque stelle: la vostra reputazione, la vostra persona, il vostro posto in società sono appese al numero di stellette che potete esibire. Il boom della sharing economy sta dando, infatti, un senso nuovo alla metafora del villaggio globale. Quando Marshall McLuhan, cinquant’anni fa, ne parlava alludeva ad un mondo improvvisamente diventato piccolo, delle dimensioni, appunto, di un villaggio, dove, insieme alla distanza fisica, scompare anche la distanza culturale, perché stili di vita, mode, atteggiamenti si incrociano e si fecondano l’uno con l’altro. È l’utopia resa possibile dalla rete. Basta affacciarsi alla finestra (cioè al computer) per avere il mondo intero davanti agli occhi. La rete vi ha aggiunto un’altra dimensione. Quello che dite, quello che vi piace, come siete, quello che fate (in una parola: il vostro profilo Facebook) sono sotto gli occhi di tutti. Tutti conoscono tutti (o possono farlo). Come nel piccolo villaggio da cui tutti noi — non più di due, tre generazioni fa — siamo venuti, la nostra faccia e i nostri comportamenti sono familiari agli altri. Con la sharing economy, compare ancora un’altra dimensione. Il nostro profilo Facebook racconta quello che noi vogliamo far sapere. Dagli ingranaggi della sharing economy — come nei veri villaggi, in cui si spettegola molto — esce fuori anche quello che noi non volevamo affatto far sapere.
«Jezelyn è lunatica. È difficile parlarci, come con un bambino imbronciato. Ha fatto chiasso tutta notte, ha imbrattato di cipria marrone tutte le pareti della camera da letto e non ha smesso un attimo di prendere in giro mia figlia». Almeno questo ha scritto on-line Lisa, che l’ha ospitata a casa sua, a Londra, nel quadro della comunità di Airbnb. Insieme a Uber (i taxi), Airbnb è una delle bandiere di grande successo della sharing economy. Attraverso il suo sito, anziché una camera d’albergo, si può andare ad alloggiare nella stanza di una casa, o anche affittare l’intero appartamento di una persona qualsiasi. Attualmente, Airbnb offre 23 mila stanze o appartamenti a New York e 24 mila a Parigi. Ma offre anche tende da nomadi in Mongolia e 600 castelli in giro per il mondo, sempre con il principio di mettere in contatto direttamente l’utente e il proprietario. Uber, invece, invece dell’alloggio, offre una normale vettura come taxi. Ma la sharing economy sta esplodendo e moltiplicandosi. Volete partire per un viaggio? Potete combinare un passaggio in macchina, sobbarcandovi una quota delle spese (Ridejoy). Ma anche farvi prestare direttamente la macchina (RelayRides). Per dormire c’è Airbnb e, se non conoscete la città potete muovervi con Uber. Mangiare non è un problema: fatevi invitare ad una cena speciale a casa altrui (Feastly). Avete dimenticato la macchina fotografica? Potete farvela prestare (insieme a centinaia di altre cose, come un trapano o un tavolo da disegno) via Zilok o Snapgoods. Ma l’idea di mettere in contatto, via un intermediario on-line, l’utente e chi, quasi sempre non professionista, è disposto a fornire un servizio, aiutandovi in una traduzione o nel montare un mobile Ikea (Elance, piuttosto che TaskRabbit), sta invadendo ogni angolo della vita quotidiana.
Dato che è sempre una relazione uno a uno, il nodo da sciogliere è il rapporto fra due perfetti estranei. I cantori della sharing economy ne esaltano l’accento sulla “fiducia” reciproca, ma questa non si crea sul nulla. Ecco perché le valutazioni sono un momento essenziale e, visto che è un rapporto uno a uno, questo vale sia per chi fornisce il servizio, sia per chi lo chiede. Critiche severe come quella rivolta a Jezelyn sono rare (la schiacciante maggioranza suona piuttosto “grande persona, non vedo l’ora che torni”), però ci sono. Uber dà i voti agli autisti, ma (anche se la società non conferma) anche ai passeggeri. Lyft — un servizio concorrente — lo fa apertamente. E lo stesso vale per Ridejoy, RelayRides, Zilok e tutti gli altri. Mattone su mattone, la sharing economy vi costruisce una personalità addosso. Salite ubriaco sul taxi? Siete un musone che in macchina non parla mai? Cospargete di cicche l’auto che vi hanno prestato? Vi infilate le dita nel naso a tavola? Bruciate la punta del trapano o vi cade di continuo la videocamera? È tutto registrato e annotato. Non è il vostro profilo Facebook, che vi siete ritagliato su misura, è la reputazione che, lo vogliate o no, vi siete costruito. E vi pesa addosso. Jezelyn reagisce come una vipera alle valutazione di Lisa con un controvoto, perché sa che rischia di essere tagliata fuori. E, come capita nei piccoli paesi, in cui si tagliano i panni addosso con troppa fretta e si cuciono stereotipi sbrigativi, anche nel villaggio della sharing economy giudizi e valutazioni sono spesso racchiusi in un voto riassuntivo. Da una a cinque stelle, per tutt’e due le controparti. Ma si corre sul filo: se andate sotto le quattro stelle, rischiate che molti nasi si arriccino. Il taxi non viene o la camera non si trova. La sharing economy caccia fuori i tipi poco raccomandabili.
Quando siamo entrati nel villaggio globale, non ci eravamo resi conto che le piccole comunità non sono sempre idilliache. Che nel villaggio dove tutti si conoscono, il passato ti insegue sempre. La reputazione è una e immarcescibile. Ci eravamo dimenticati che, dai piccoli paesi, la gente spesso scappava per respirare un po’ e fare i propri comodi in città. Anzi, ci si trasferiva, sperdendosi nell’anonimato delle grandi metropoli, dove basta cambiare strada per diventare un perfetto sconosciuto e dove le reputazioni si possono costruire, le persone reinventare, da zero, ogni giorno. Stephen Strauss ha scritto, invece, sull’Huffington Post che l’anonimato urbano del Ventesimo secolo “è stato l’eccezione, non la norma, nella storia umana”. Peccato, aggiunge, perché il villaggio digitale gli appare un po’ “claustrofobico”. Pulito, educato, onesto, magari, ma anche un po’ noioso. E in cui l’apparenza è, se non tutto, un buon pezzo. Come dice uno dei boss di Google, Eric Schmidt: “Se c’è qualcosa che non volete che tutti sappiano, forse la prima cosa è non farla”.
Maurizio Ricci, la Repubblica 3/9/2014