Tino Oldani, ItaliaOggi 3/9/2014, 3 settembre 2014
LA SCELTA DI RENZI DI AUTORIZZARE LO SHALE GAS, TOGLIENDO POTERE ALLE REGIONI, È LA RIFORMA PIÙ INCISIVA DOPO QUELLA DEGLI 80 EURO
Serviva molto coraggio per autorizzare lo shale gas in Italia. Il premier Matteo Renzi ha dimostrato di averlo, ed è giusto riconoscerlo. Un articolo del decreto “Sblocca Italia”, approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri, cancella finalmente la duplice competenza Stato-Regioni in materia energetica, che finora ha provocato conflitti e ritardi a iosa, più carte bollate che metri cubi di gas. In pratica, se sarà approvata dal Parlamento e riuscirà a superare il fuoco di sbarramento che gli ambientalisti stanno già allestendo, la norma restituirà allo Stato la piena sovranità sulle esplorazioni di nuove fonti di energia, stabilendo tempi certi (180 giorni) per le autorizzazioni. Il che significa che le Regioni, non avendo più voce in capitolo, non potranno ostacolare le ricerche di petrolio e di gas nel sottosuolo nazionale, come purtroppo hanno fatto per anni con la scusa di danni ambientali, quasi sempre più presunti che reali.
Poche cifre spiegano meglio di tante parole l’importanza della decisione di Renzi. L’Italia consuma ogni anno 120 milioni di tonnellate tra petrolio e gas, spendendo 66,5 miliardi di euro per le importazioni, somma pari al 4,4% del pil. Il contributo delle risorse nazionali (gas più petrolio) è minimo, pari ad appena 12 milioni di tonnellate. Un apporto che negli ultimi 12 anni, proprio in coincidenza con la competenza concorrente di Stato e Regioni in materia di ricerche ed estrazione, è fortemente diminuito, passando da 24 a 12 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, a fronte di riserve accertate che sono tra le più alte in Europa. Ora il governo ha deciso di cambiare musica. L’obiettivo è di raddoppiare entro il 2020 le estrazioni di idrocarburi in Italia, arrivando a 24 milioni di barili l’anno, con investimenti per 15 miliardi di euro, 25 mila nuovi posti di lavoro e un risparmio di almeno 5 miliardi sulla bolletta energetica nazionale. Secondo i calcoli dell’economista Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, le principali ricadute positive saranno un aumento del pil di almeno un punto e un maggiore gettito per lo Stato di circa 1,5 miliardi tra imposte e royalties per i diritti di estrazione.
Le Regioni nel cui sottosuolo vi sarebbero le maggiori quantità di gas e petrolio, secondo l’Assomineraria, sono Sicilia, Basilicata, Puglia e Alto Adriatico. Ma anche altre aree potrebbero essere interessate dalle esplorazioni, poiché – sostiene Tabarelli – da Novara fino alla Calabria e alla Sicilia, lungo l’Appennino, vi è una dorsale del gas e del petrolio tutta da scoprire. Una dorsale parallela esisterebbe nel mare Adriatico, da Chioggia al Gargano. Il premier Renzi ne è talmente convinto che, rispondendo alle riserve degli ambientalisti, ha detto: «Se in Basilicata c’è il petrolio, sarebbe assurdo rinunciarvi».
La citazione della Basilicata, con ogni probabilità, non è stata affatto casuale. Attualmente è la Regione in cui si estrae più petrolio (5 milioni di barili l’anno sul totale nazionale di 11 milioni). I tecnici stimano che la Basilicata abbia ingenti riserve non sfruttate, da 400 milioni a un miliardo di barili. Ma appena due anni fa giunta regionale, guidata allora dal pd Vito De Filippo, con motivazioni ambientali ha respinto ben 17 richieste di esplorazione, bloccando sine die le ricerche sia di gas che di petrolio. Resistenze simili sono state messe in atto in altre parti d’Italia, impedendo le ricerche off-shore sia nell’Alto Adriatico (dove la Croazia si sta già muovendo con rapidità per farci concorrenza), sia nel Canale di Sicilia.
È quasi certo che il disco verde del governo Renzi alle ricerche di gas e petrolio non fermerà l’opposizione degli ambientalisti, Legambiente in testa. Per Renzi, fuoco amico da sinistra. Ma è probabile che lo scenario internazionale, questa volta, dia una mano al premier. La guerra in Ucraina potrebbe ridurre di molto le forniture di gas russo, che per l’Italia rappresentano il 30% del fabbisogno. E cercare di sopperire con gas nazionale appare una scelta di puro buon senso. Quanto alla tecnica estrattiva nota come “shale”, che per gli ambientalisti costituisce una minaccia per l’ambiente in quanto richiede una frantumazione delle rocce (fracking) a grande profondità con acqua e liquidi chimici potenzialmente inquinanti, Renzi sa di poter contare sui risultati straordinari ottenuti negli Stati Uniti proprio con questo metodo, e sul fatto che anche la Germania, dopo la Danimarca e la Polonia, ha autorizzato di recente le esplorazioni shale, distinguendosi dalla Francia, dove sono vietate per legge.
Grazie allo shale gas, sconosciuto fino al 2003, gli Stati Uniti hanno raggiunto in pochi anni livelli di produzione mai visti. Tanto che l’ex presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi, in un suo saggio recente ha sottolineato che nel 2012 gli Usa hanno superato la Russia per divenire il più grande produttore di gas, e oggi potrebbero mettersi in concorrenza con Paesi da cui prima dipendevano strettamente, come Qatar o Nigeria. Di più: entro il 2015 gli Stati Uniti supereranno l’Arabia Saudita come leader nella produzione di petrolio, entro il 2020 raggiungeranno la completa autonomia nel gas, mentre entro il 2030 ridurranno ad appena il 30 per cento del fabbisogno le importazioni di petrolio. Una rivoluzione tecnologica, lo shale gas, che Barack Obama ha caldamente suggerito all’Europa con l’intento di sottrarla alla dipendenza dal gas russo, e togliere così a Vladimir Putin le ricche entrate finanziarie che ne alimentano i sogni di grandeur. Dunque, una rivoluzione duplice, tecnologica e geopolitica, a cui l’Italia di Renzi sembra allinearsi con tacita sollecitudine, anche a costo di perdere gli affari Eni-Saipem connessi al gasdotto italo-russo South Stream.
Tino Oldani, ItaliaOggi 3/9/2014