Tim Parks, Domenicale – Il Sole 24 Ore 31/8/2014, 31 agosto 2014
MA CHE DOMANDE MI FATE?
Perché la gente fa domande così stupide?
Durante un festival letterario a Bordeaux mi hanno presentato lo scrittore francese Frédéric Verger. Il nome non mi era familiare, ma pareva che il suo primo romanzo fosse nella rosa del premio Goncourt. Dal momento che sembrava aver passato i cinquanta, gli ho chiesto come mai avesse iniziato così tardi. Mi ha spiegato di aver provato con i romanzi intorno ai vent’anni, senza successo; aveva passato la maggior parte della vita a insegnare al liceo, poi aveva deciso di riprovare. Era una storia insolita. Gli ho chiesto come stavano andando le presentazioni al festival e lui ha detto benissimo, a parte il fatto che alla fine il pubblico fa delle domande veramente stupide.
«Tipo?»
«Tipo perché a cinquant’anni ho scritto un solo romanzo».
Quasi tutti gli scrittori si lamentano delle domande che pone il pubblico ai festival. Naturalmente, abbiamo bisogno del pubblico per sentirci importanti. Quando la sala è al completo, siamo entusiasti, specialmente se ci sono segni di partecipazione. Questo è un buon pubblico. «Ma quando si arriva alle domande, ti chiedono sempre della tua vita», lamenta Caroline Lamarche.
È seduta accanto a me a firmare copie dei suoi libri. I francesi hanno una politica noiosissima di far sedere per ore gli autori a uno stand librario caso mai a qualcuno venga voglia di farsi autografare un libro. Sembriamo contadini che portano i fagioli al mercato. Ma questo scenario mi dà il tempo per esaminare le copertine dei romanzi di Lamarche. Pare siano incentrati su amore, sesso e violenza. Lei sembra una donna interessante e mi piacerebbe farle qualche domanda sulla sua vita, ma temo di sembrare sciocco.
Nell’auto che mi riporta all’aeroporto mi trovo solo sul sedile posteriore mentre i due davanti – uno degli organizzatori del festival e un altro scrittore – chiacchierano in francese. Cerco la foto dello scrittore sul catalogo del festival e scopro che si chiama Louis Philippe Dalembert e viene da Port-au-Prince. Poi vedo che il suo romanzo, Ballade d’un amour inachevé, «è una rivisitazione dei terremoti dell’Aquila e di Haiti, che hanno visto entrambi coinvolto l’autore». Lancio una domanda in italiano e viene fuori che Dalembert lo parla perfettamente. Dice cose interessanti sul dopo il terremoto, sul problema di scrivere o no dell’evento, se scegliere un memoir o un romanzo. Gli ho chiesto come era andata la sua presentazione al festival. «Benissimo», ha detto, «se non fosse per le domande stupide alla fine».
Adesso basta. È arrivato il momento di chiedersi se davvero il pubblico ci ponga domande stupide o comunque sbagliate, o se non sono gli scrittori a sbagliare volendo parlare esclusivamente dei loro romanzi, come se non ci fosse una continuità tra scrittura e vita.
Uno dei problemi dei festival è quanto è difficile parlare in maniera utile di un libro in queste circostanze. Arrivi in un tendone con un centinaio di sedie, occupate per metà. Un presentatore, che forse ha letto il tuo libro ma forse no, offre una tua mini biografia: età, pubblicazioni, riconoscimenti. Viene tratteggiato il romanzo che presenti: qualche elemento dell’intreccio, l’accenno a un tema. Mentre ascolti sei sopraffatto dall’abisso tra la densità di quello che hai scritto e questa drastica riduzione.
Nel frattempo, nel pubblico c’è chi ha già letto il libro e sa molto di più del presentatore, mentre altri non hanno mai letto niente di tuo e difficilmente capiranno qualcosa da queste poche briciole formulaiche. Chi ha letto altri libri tuoi ma non questo, cercherà di far combaciare quanto si dice con quello che hanno letto; ma il romanzo in oggetto è ambientato in un ritiro di meditazione, mentre loro magari hanno letto quello che parla della tifoseria calcistica.
L’unico approccio sensato sarebbe leggere uno brano del libro stesso. La voce, la postura, l’atteggiamento, di un autore mentre legge, possono lasciare un’impressione forte. Purtroppo molti festival europei scoraggiano la lettura. Temono che andrai avanti all’infinito e annoierai a morte tutti. Al massimo la persona che ti presenta legge un paragrafo o due lasciando assolutamente perplesso davanti alla sua scelta di quel insulso paragrafo tra tutti i possibili. Certo di venire sottostimato, ti lanci in una lunga «spiegazione» del tuo romanzo, dell’idea iniziale, i modelli che ti hanno ispirato, l’effetto particolare che cercavi, ma, anche mentre parli, ti rendi conto che a un livello più profondo niente di tutto ciò è vero.
È più elusivo, più complicato. Alla fine il presentatore decide che è il momento di chiedere se ci sono domande. Qualcuno alza la mano: «Lei è mai stato a un ritiro buddista?», chiede una donna anziana. «E se sì, lo raccomanderebbe ad altri?»
Questa è o non è una domanda stupida?
La maggior parte delle persone che partecipano a questi eventi sono lettori abituali. Sono già andate a molti eventi simili, così avranno capito da tempo che a un evento non si dirà quasi niente di interessante su un libro. Sanno che l’intrico delle menti che si ha quando lettore e romanziere si incontrano sulla pagina è un processo troppo intimo ed sfuggente per essere affrontato in quaranta minuti tra microfoni incerti e gente che entra ed esce alla rinfusa.
Ma allora perché vengono? Leggendo spesso, l’esperienza della lettura li incuriosisce. Vogliono capire perché i libri lasciano in loro una tale impressione. Forse sentono che, al di là delle ovvie emozioni suscitate, c’è un surplus di senso che non sono riusciti ad spiegarsi. Insomma, c’è un mistero che vorrebbero capire e quel mistero sei tu. O almeno loro lo interpretano così.
Quanto a te, sai benissimo che c’è un’assoluta continuità tra questo libro e la tua vita. Parlerai del libro come se avessi il controllo sulla sua creazione, e forse ce l’hai, fino a un certo punto, ma prima e dopo quel punto c’è un vasto retroterra di esperienze e fatti su cui non hai alcun controllo. Solo tu avresti potuto scrivere questo particolare libro, non perché sei migliore o più originale degli altri, ma perché tu sei tu. Questo libro è il tuo libro. Da chi poteva mai venire se non da te?
«Pensa che il suo trasferimento in Italia abbia modificato il suo modo di pensare e di scrivere?»
«Le è stato utile come autore essere anche un traduttore?»
«Sua moglie legge i suoi libri e, se sì, che ne pensa?»
Nessuna di queste domande si riferisce direttamente al romanzo che stai presentando. Il pubblico spara alla cieca, cercando una qualche connessione tra la figura sul palco e la particolare atmosfera dei romanzi che hanno letto. Un’atmosfera inquietante. Un’atmosfera consolatoria. O inquietante e consolatoria. Ma perché? Chi sei tu, per produrre questa roba? L’ironia forse sta nel fatto che ciò che per loro è misterioso, è ancora più misterioso per te. Eppure provando e non riuscendo a rispondere alle loro domande, è probabile che tu stia dicendo loro di più, con la tua perplessità e la tua frustrazione, o con il tuo fascino e il tuo sarcasmo, di quanto avresti mai potuto dire spiegando il tuo libro.
Tim Parks, Domenicale – Il Sole 24 Ore 31/8/2014