Matías Marini, il Venerdì di Repubblica 29/8/2014, 29 agosto 2014
BAIRES, LA MORTE DI RE GRONDONA 35 ANNI AL POTERE
Buenos Aires Davvero è morto? La domanda è venuta spontanea. Per giornalisti sportivi e calciatori cresciuti sotto la sua giacca, Julio Humberto Grondona sembrava immortale. Malgrado avesse 82 anni.
Sparito, tutto d’un colpo, l’uomo – di manifesta origine genovese, come tanti argentini – che per ben 35 anni controllò le leve del calcio locale. E anche del soccer globale: da vicecapo della Fifa, Don Julio aveva in mano le finanze di quell’immune Stato sovranazionale presieduto da Joseph Blatter.
«Sono il vicepresidente del mondo», si vantava, con la sua immancabile aria da patriarca, il doppio mento traboccante, gli occhi ripiegati all’ingù. Non masticava nemmeno una parola in inglese, ma alla Fifa tutti l’avvicinavano per il baciamano, parlandogli in uno spagnolo appositamente imparato. Osannato dai colleghi, l’argentino aveva raggiunto il surplus nei conti del massimo organo mondiale del pallone.
Bollato come capomafia, boss, Godfather, da presidente dell’Asociación del Fútbol Argentino (Afa) fece sì che tutto finisse sotto la sua manica. Dalla scelta di ogni singolo arbitro alle sanzioni disciplinari. Persino le retrocessioni in serie B erano affari suoi.
Due Coppe del Mondo, un paio di vicecampionati, l’oro olimpico. Maradona e Messi sono decollati con la pacca di Grondona sulla spalla. (Con Diego, però, il rapporto è finito a rotoli). Non appena fiutò il talento del nuovo pibe de oro, il Patriarca alzò la cornetta e chiese al suo omologo paraguaiano di inventarsi un’amichevole binazionale ad personam. «Ma Julio! Quello che mi chiedi non esiste!», reagì il paraguaiano. «Tu fai quel che ti dico», tagliò corto il Padrino. E così, Lio Messi finì ingaggiato nella Nazionale albiceleste, prima che gli spagnoli si appropriassero della gallina dalle uova d’oro.
Sarcastico, tracotante, a volte pacchiano. «Noi dirigenti dobbiamo parlare poco e niente», diceva, amante del low profile. Ma un giorno, durante una grigliata, un po’ di vino rosso gli sciolse la lingua: «Alcuni sono nati per fare il fruttivendolo; altri, invece, per fare il presidente». Niente dissenso. L’unanimità è stata la regola durante il suo impero. Regnò sovrano con una formula leonina: Federazione ricca, club poveri. «Da questo posto uscirò solo a piedi avanti», promise. Ora abbiamo capito che non scherzava.
Dalla dittatura alla democrazia, montò in sella all’onda di ogni governo. La sua spada, i diritti tv delle partite: li concesse prima alle emittenti private e poi, dal 2009, allo Stato, che sborsa 130 milioni di euro l’anno per il programma Fútbol para todos (calcio per tutti). Ci è voluta la sua morte perché la giustizia ordinasse – sei giorni dopo il decesso – la perquisizione degli uffici del defunto, sospetto di malversazione dei fondi stanziati dallo Stato.
Un rammarico Don Julio ce l’aveva. La violenza nel calcio argentino, «l’unico campionato che non ho ancora vinto», si lamentava. Quel match lui lo perse per goleada. In Argentina, i tifosi in trasferta hanno il divieto d’ingresso negli stadi. Neppure Grondona, però, poteva metterci piede: il plateale fischio della tifoseria l’avvolgeva.
Il patriarca si è spento il 30 luglio scorso. Un’insufficienza cardiaca lo spazzò via. Sette giorni di lutto nel campionato locale (nemmeno uno per alcuno dei 300 morti della violenza calcistica). Fino all’ultimo giorno, indossò un grottesco anello con l’incisione Todo pasa, tutto scorre. Tutto, persino l’onnipotenza. Sic transit gloria mundi.
Matías Marini, il Venerdì di Repubblica 29/8/2014