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 2014  agosto 30 Sabato calendario

SE VI BASTA IL 2,4%

È stato un agosto molto buono per il mercato obbligazionario europeo. I prezzi dei bond governativi e corporate sono ormai ben oltre la pari e i rendimenti pagati sono ai minimi dall’inizio dell’era euro, tanto che le emissioni di Paesi come l’Italia e la Spagna oggi pagano poco più di quelle di Usa e Regno Unito e nei giorni scorsi li hanno addirittura superati al ribasso. Sembra quindi il momento giusto per vendere e portare a casa i guadagni, perché è difficile immaginare ragioni per ulteriori spinte rialziste nelle quotazioni. Il vero problema, però, poi è quello di trovare dove investire il denaro incassato.
Già perché nei Paesi dell’area euro, ma anche nel Regno Unito, in Scandinavia e negli Usa i rendimenti dei bond sono appunto tutti ai minimi, sia che si tratti di titoli governativi sia che si tratti di bond di emittenti finanziari o corporate, anche high yield. Per chi non voglia spostarsi sull’azionario o sui fondi di investimento, dunque, le alternative rappresentate da bond che offrano rendimenti interessanti sono davvero poche e soprattutto impongono di prendersi una certa dose di rischio, in particolare sul piano valutario.
D’altra parte i rendimenti che ormai circolano anche per i Btp italiani sono nell’ordine del 2,4% a 10 anni, livelli cioè poco lontani da quelli pagati dai Treasury Usa (2,344%) e dai Gilt britannici ( 2,395%) di analoga scadenza e addirittura sotto i quali i Btp si sono spinti a un certo punto la scorsa settimana. Situazione che invece vale tuttora per la scadenza a 7 anni, per la quale l’Italia paga l’1,66% contro l’1,997% del Regno Unito e il 2,945% degli Usa. E i rendimenti pagati dalla Spagna sono ancora più bassi: 1,369% a 7 anni e 2,224% a 10 anni.
Un paradosso, questo, che deve far pensare al fatto che in questa situazione ci sia qualche cosa che non va. Come è possibile che l’Italia con il suo rating Baa2/BBB+/BBB+ oggi paghi circa gli stessi rendimenti di Usa e Regno Unito, che invece sono tripla A? A ben vedere, un senso tutto questo ce l’ha, perché in termini reali l’Italia e l’Europa pagano ben di più di Usa e Regno Unito, perché l’inflazione nell’area euro è prossima allo zero: venerdì 29 agosto è stato diffuso il dato preliminare relativo ad agosto che ha indicato un’inflazione annuale allo 0,3% dal dato definitivo di luglio dello 0,4% (ma in Italia a luglio l’inflazione è stata solo dello 0,093%), contro un’inflazione Usa che a luglio si era collocata all’1,992%, mentre nel Regno Unito i prezzi al consumo sono cresciuti dell’1,59%.
Detto questo, il peso del debito resta tutto e un cambio di rotta negli umori degli investitori è sempre dietro l’angolo, soprattutto in una situazione in cui lo spread di rendimento tra i decennali italiani e quelli tedeschi è arrivato al di sotto dei 150 punti base, nonostante anche il Bund tedesco abbia toccato a sua volta il minimo storico dei tassi a 10 anni, scendendo sotto lo 0,9%. Lo spazio di miglioramento possibile, quindi, in termini di riduzione di spread e di rendimenti è davvero risicato.
Il mercato obbligazionario europeo, compreso quello dei Paesi più indebitati, era già inserito da mesi in un trend positivo, che ha beneficiato di un’ulteriore forte spinta a partire dallo scorso 22 agosto, quando le parole del governatore della Bce Mario Draghi alla convention della Fed di Kansas City sono state interpretate dalla maggior parte degli analisti come un accenno all’adozione a breve di una politica monetaria di forte supporto alla crescita economica, proprio nel momento in cui, per contro, la Fed sta gradualmente riducendo il ricorso al quantitative easing.
E se è vero che giovedì scorso 28 agosto sul mercato si sono diffuse voci che mettevano in guardia circa la possibilità che la Bce possa deludere le aspettative in occasione del prossimo meeting del 4 settembre, lo storno delle quotazioni è stato minimo.
Così in questo scenario per tornare a incassare rendimenti nell’ordine del 4-5% lordo a 5-7 anni non bastano più nemmeno i bond high yield in euro di emittenti come Fiat (al 2021) che ha rating B2/BB-/BB- e che venerdì 29 agosto rendeva solo il 3,8%. Quanto a Telecom Italia, con rating Ba1/BB+/BBB-, il titolo gennaio 2019 oggi paga solo il 2,6%. E la situazione dei bond corporate è identica anche nel mondo anglosassone, con gli spread di rendimento contro bond governativi che sono scesi a loro volta ai minimi.
Investire in titoli Usa, però, per un investitore europeo potrebbe oggi avere una certa attratività, visto che, nonostante i rendimenti bassi, la scommessa sul dollaro potrebbe rivelarsi vincente: il dollaro infatti è destinato ad apprezzarsi contro euro, visto che negli Usa l’economia è tornata a crescere, mentre in Europa aleggia lo spettro della recessione. Gli analisti di Goldman Sachs addirittura prevedono che il cambio raggiungerà la parità entro la fine del 2017, il che significa un apprezzamento delle attività in dollari nell’ordine del 30%. Più a breve, Goldman vede il cambio a 1,25 tra sei mesi dall’attuale 1,3141.
In alternativa può essere ancora più interessante guardare alle emissioni in valuta locale di Paesi emergenti, lasciando da parte le emissioni in dollari o in euro di quei Paesi, perché in quel caso i rendimenti sono comunque molto contenuti. Un bond a 10 anni in dollari del Messico, infatti, oggi rende attorno al 3,19 e il 2,22% quello in euro. Un bond decennale brasiliano in dollari paga il 3,78%. Più interessanti i decennali della Turchia in dollari, che sfiorano il 4,5%. Certo, le emissioni in valuta locale pagano molto di più, ma in questo caso, oltre al rischio emittente, si prende anche quello valutario.
Una soluzione per limitare il rischio, pur beneficiando di rendimenti interessanti, può essere quella di investire in emissioni di organismi sovranazionali denominate però appunto in valuta di Paesi emergenti. In quel caso, infatti, i rendimenti pagati sulla valuta sono significativi e il rischio emittente sostanzialmente inesistente, visto che si tratta di organismi tutti con rating tripla A. Certo, va ponderata bene la moneta sulla quale puntare.
È evidente che comprare oggi una valuta forte, ai massimi degli ultimi anni contro euro, non sarebbe una scelta oculata. Meglio individuare valute che si trovano in una situazione di debolezza e che abbiano ragionevoli probabilità di apprezzarsi nei prossimi mesi, come il rand sudafricano o la lira turca. Le emissioni in queste valute, per esempio da parte della Banca Europea degli Investimenti (Bei) e di altri organismi sovranazionali, non mancano e i rendimenti sono già ricchi, anche al netto degli eventuali apprezzamenti della valuta. Tanto da offrire un solido cuscinetto di protezione nel malaugurato caso di deprezzamento della valuta.
Per esempio, chi volesse oggi scommettere sul real brasiliano, che si trova a quota 2,98 contro euro dopo avere superato quota 3,25 a inizio anno, può trovare emissioni che pagano oltre il 9% a 2-4 anni. Un’occasione se si dà fiducia alle parole del ceo di Fiat, Sergio Marchionne, a fine luglio in occasione della conference call sulla semestrale, si è detto certo del fatto che, chiunque vinca le elezioni nel Paese il prossimo ottobre, l’economia brasiliana ricomincerà a tirare. Può essere solo un auspicio di Marchionne, visto che la semestrale aveva indicato un calo netto dei ricavi del gruppo in America Latina, proprio a causa dei problemi che sta passando il Brasile, ma il top manager del Lingotto di solito di mercati se ne intende. Al momento, però, i dati sono poco confortanti: venerdì 29 agosto sono stati diffuse le cifre sulla crescita del pil nel secondo trimestre, che hanno evidenziato una riduzione dello 0,6% dal primo trimestre dopo che nel primo trimestre si era evidenziata una contrazione dello 0,2% rispetto al quarto trimestre del 2013.
Meno dubbi possono esserci sul futuro di rand sudafricano o di lira turca, entrambe ai minimi sull’euro e in una situazione economica più favorevole. Il rand oggi quota attorno a 14 contro euro, dopo avere segnato il massimo storico del cambio a 15,34 a fine gennaio, lontano da quota 10-11 degli anni 2010-2011-2012. Allo stesso modo anche la lira turca che oggi quota attorno a 2,8 aveva segnato il massimo storico a 3,18 a fine gennaio, con la banca centrale che nei giorni scorsi ha mantenuto inalterato il tasso di riferimento all’8,25% per tenere sotto controllo l’inflazione.
Quanto al rublo, la crisi con l’Ucraina ha spinto al rialzo i rendimenti dei bond e ha indebolito il cambio in maniera importante. Quando la situazione si concluderà, certamente si assisterà a un’inversione di questo trend. Ma appunto qui il rischio è ai massimi livelli.
Stefania Peveraro, MilanoFinanza 30/8/2014