Silvia Fumarola, la Repubblica 30/8/2014, 30 agosto 2014
SERGIO CASTELLITTO
[Intervista] –
Lo dice con orgoglio misto a pudore: «Sono fortunato. I miei figli sono belli ma sono soprattutto buoni, bravissimi ragazzi. La paternità è un tema gigantesco, penso alla Lettera al padre di Kafka, con quelle parole di grande dolore, paura e rimprovero: “Tu sei per me la misura di tutte le cose”. Una cosa ho imparato, la paternità è stata una specie di viaggio, ho imparato insegnando qualcosa ai miei figli. Tutti i consigli e i suggerimenti dati nascevano dagli errori che ho commesso».
Sergio Castellitto è seduto nel suo studio accogliente e spartano, parquet chiaro, pareti bianche foderate di libri, un computer che fa magie («se lo sfiori fa tutto lui» - sorride «ancora non ho imparato bene a usarlo, non sono tecnologico») nel cuore dei Parioli a Roma.
Sposato con la scrittrice Margaret Mazzantini, quattro figli, Pietro, Anna, Maria e Cesare, ha un concetto di famiglia tradizionale e libero: «È la mia squadra». La foto in bianco e nero di tutto il gruppo con Cesare neonato campeggia su uno scaffale. «Sembra passata una vita. Oggi i ragazzi hanno dai 22 agli 8 anni, sperimento con loro cosa significhi crescere, mi sembra di somigliare a tutti e quattro, in tutti ritrovo qualcosa di me, e sono tutti collegati dall’amore quotidiano che Margaret e io gli diamo. “Padre” è una parola impegnativa, diciamo “padre della patria”, “padre spirituale”.
La paternità è un modo di essere, il regista è un padre, l’attore un miserabile giocoliere che cerca qualcuno che gli dica cosa fare. Tanti “padri” possono avere un’età molto vicina alla tua, puoi essere il padre di un amico se sai leggere il suo dolore o l’inadeguatezza. Io sono cresciuto con i miei figli».
Al cinema è stato il padre perplesso de La bellezza del somaro , il meraviglioso fallito di Caterina va in città di Virzì, il padre ateo de L’ora di religione di Bellocchio, «un padre artista, concentrato su di sé» spiega l’attore «con il figlio che gli fa le domande che avrebbe dovuto fargli uno psicanalista. E non è un padre Don Milani anche se è un prete? Ed è un padre anche lo psicanalista di In treatment, che analizza gli altri ma ha tanti nodi da sciogliere nella sua vita. Il cinema ti fa scoprire una parte di te, ma la vita è un’altra cosa».
Castellitto pesa le parole, non ha ricette: «L’esperienza conta, ma a volte può non significare niente. Io tendo a non dare lezioni ai miei figli. Se dico come bisogna fare per non perdersi le chiavi è solo perché mi sono perso tre mazzi di chiavi nella mia vita. La verità è che oggi abbiamo una fottuta paura di invecchiare, non accettiamo l’idea: il fatto di dover essere “autorevoli” rispetto ai figli è anche l’assunzione della propria età. Devi permettere a un altro di sorpassarti e prendere il testimone, deve vivere la propria vita, percorrere altri mille chilometri. Per questo secondo me» riflette «c’è tanta violenza sui figli e sulle donne, perché gli uomini rivendicano il proprio ruolo maschile e non accettano di far crescere chi gli sta accanto».
Ansioso («resto sveglio finché non sono rientrati tutti»), curioso, compagnone, ma “padre” («non voglio essere amico dei miei figli ma so che si fidano di me: mi voltano le spalle e sanno che gliele guardo»), l’attore viene da una famiglia «semplice e numerosa. Papà è stato un padre italianamente disattento, forse anche per questo la mia paternità l’ho vissuta con un impegno speciale, sono andato a coprire i buchi che mi riguardavano come figlio. Mi sforzo di dare quello che mi è mancato, come diceva don Milani: “I care”. Che vuol dire: mi arrabbio con te perché mi preoccupo di te. Ma da genitore devi rispettare la straordinaria indipendenza dei figli, le loro aspirazioni». Per Castellitto è fondamentale l’attenzione: «Non è vero che conta la qualità del tempo più della quantità, io sono convinto che più ci stai, coi figli, e meglio è. Poi penso che vada messo tutto sul piatto, io e Margaret con i ragazzi parliamo di letteratura, cinema, dolori, felicità, tutto. Penso che debbano vederci arrabbiati, di buon umore, pieni di amore e di contraddizioni, esattamente come siamo: devi essere trasparente, non ti puoi permettere di avere doppi fondi. La cosa peggiore è far finta di essere un padre perfetto ». Perché, esistono padri perfetti? Ride. «Forse no. Padri ideali, sì. Credo che nel rapporto con l’educazione dei figli» continua l’attore «abbiamo molto da imparare, ma tutto questo è complicato dall’amore, il conflitto senza l’amore non esiste. So che questi sono gli anni più belli della nostra vita, poi un giorno, ti devi preparare a questo, i figli se ne andranno, faranno la loro strada, entreranno in conflitto con te poi riallacceranno i fili, rientreranno nel porto che hanno voluto abbandonare ». Si ferma. «Ora mi dirà: “È la vita”, lo so, è vero. La cosa più difficile è riconoscere la loro unicità e avere un profondo rispetto di questa individualità, l’idea di essere il loro esempio sopravvive ma i figli ti fanno le radiografie. Sono tremendi». E quindi subentra il senso di inadeguatezza. «Bisogna sentirsi inadeguati, soltanto l’inadeguatezza ti mette in condizione di per poter dare il meglio, il resto è l’esperienza, una strana cosa, importante, che confina con qualcosa di morente. Io voglio rimanere uno studente per sempre, voglio imparare con loro. So di essere molto amato e molto preso in giro, è l’aspetto che mi piace di più». Respinge l’idea della “famiglia ideale” («perché non esiste»), come genitore gli piace la definizione di «parafulmine». «Fare il parafulmine è complicato, devi avere la forza di controbattere al momento giusto e la pazienza di aspettare quando passa la tempesta. Sono molto sentimentale, nel senso miglior della parola, mi aspetto che tutto si ricomponga». I suoi figli sono doppiamente “figli d’arte”: lei fa l’attore, Margaret è scrittrice. Chiara Mastroianni raccontava di aver capito di essere figlia di persone famose a scuola, quando gliel’hanno fatto notare i compagni di classe. «Non ci siamo mai domandati quando abbiano scoperto che facciamo un lavoro “pubblico”. Ma quello che sanno i miei figli, da quando sono piccoli, è che papà esce di casa per andare a lavorare, come tutti. Tutto il resto — le foto, i giornali — fa parte del mestiere ma non è il mestiere. Io non nasco figlio d’arte e quando ero ragazzo guardavo i figli d’arte e mi dicevo: “Beati loro”. Oggi non lo penso più. I figli d’arte hanno molte beghe da risolvere, ma noi siamo stati bravi come genitori, abbiamo sempre stabilito una grande essenzialità. Abbiamo anteposto la relazione con loro, facendo quello dovevamo fare: Margaret scrive, io recito e faccio la regia. Ancora oggi alla domanda: “Dove vai papà?”, rispondo: vado a lavorare. Non vado sul set. Spero che facciano quello che li rende felici, non sto crescendo futuri scrittori, ingegneri, architetti. Spero siano cittadini consapevoli. Non è poco».
Silvia Fumarola, la Repubblica 30/8/2014