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 2014  agosto 30 Sabato calendario

I VALORI DEI TALEBANI CHE GLI ARABI NON HANNO

Sgozzare un prigioniero e, per sopramercato, filmarne l’esecuzione, è un atto infame. I prigionieri di guerra vanno rispettati. Ciò vuol dire che non devono nemmeno essere umiliati mettendoli nudi a piramide o, sempre nudi a quattro zampe tenuti al guinzaglio come cani, da una soldatessa, con un superadditum per un uomo di cultura islamica, come è stato ad Abu Ghraib o tenerli in gabbie scoperte, esposti giorno e notte, come è avvenuto e avviene tuttora a Guantanamo, oppure facendoli sfilare, con le mani legate dietro la schiena, in ciabatte, fra ali di una folla insultante che li bersagliava di uova, come è accaduto a Donetsk ai soldati ucraini prigionieri dei russofoni. Né il prigioniero di guerra può essere torturato, col waterboarding, la deprivazione del sonno cui sono stati sottoposti i Talebani a Guantanamo. Anche se la tortura, comunque inaccettabile, ha un grado di gravità leggermente inferiore perché può essere fatta per estorcere informazioni al nemico, mentre l’umiliazione è solo un atto di puro sadismo. Anche i Talebani afghani hanno e hanno avuto prigionieri. E tutti, da Daniele Mastrogiacomo di Repubblica alla giornalista inglese Yvonne Ridley alla francese Celine Cordelier dell’Ong Terre d’enfance fino al giovane sergente americano Bowe Bergdahl liberato, dopo 5 anni, pochi mesi fa in cambio di alcuni detenuti di Guantanamo, hanno dichiarato di essere stati trattati con rispetto. Appena liberata dopo 25 giorni, la Cordelier disse: “Non potrò mai dimenticare che mi hanno nutrito e trattata con rispetto e anche con delicatezza per le mie esigenze di donna”.
Ma il caso più significativo è forse quello di Yvonne Ridley. La giornalista inglese, mascherata con un burqa, si era introdotta in territorio talebano proprio nei giorni in cui gli angloamericani cominciavano a bombardare Kabul. Naturalmente i Talebani la sgamarono subito, l’arrestarono e la portarono in una loro prigione. A lei, terrorizzata per essere caduta nelle mani di gente tanto malfamata, venne un blocco allo stomaco, si rifiutava di mangiare. “Ciò addolorò sinceramente i miei carcerieri che cercavano di farmi coraggio”. Poiché non aveva con sé documenti che dimostrassero che era davvero una giornalista, e oltretutto apparteneva a un Paese che li stava attaccando, i Talebani avevano delle buone ragioni per sospettare che fosse una spia. La interrogarono quindi per alcuni giorni e accertato che non era una spia, la portarono, protetta da una scorta armata, al confine col Pakistan, liberandola. Non ci sono mai arrivati dall’Afghanistan filmati osceni con i prigionieri costretti alle più umilianti ritrattazioni come fece Saddam Hussein con i giovani soldati americani o filmati in cui si fanno sfilare i prigionieri come a Donetsk o come fecero gli stessi americani con i primi guerriglieri Talebani catturati ed esibiti alla curiosità delle Tv benché implorassero i loro carcerieri di non costringerli a quell’osceno defilé (“Piuttosto uccideteci, ma non umiliateci”). Il fatto è che quello afghano, talebano o no, nonostante gli sia passato sopra l’islamismo , resta un antico popolo tradizionale che conserva alcuni valori prereligiosi, preideologici, prepolitici: dignità, lealtà, rispetto. Valori che gli arabi, dalla lingua biforcuta, non hanno mai avuto e che noi occidentali abbiamo perduto da tempo. A me non sono mai interessate le ideologie, mi interessano gli uomini e i loro comportamenti. Per questo, pur non condividendo quasi nulla, sono stato, sono e sarò sempre dalla parte dei Talebani che da 14 anni tengono testa, non aiutati da nessuno se non dalla propria valentia guerriera, al più potente, tecnologico e vigliacco esercito del mondo. Io sto col Mullah Omar. Un uomo, finalmente, non un’ameba.
Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 30/8/2014